Federconsorzi: storia di un'onta nazionale/III/9
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Storia di un burattino che incontrò due animali gentili, rimase incantato dai bei modi, ne seguì gli accorti consigli e si trovò a cadere dalla finestra del palazzo fatato in cui i premurosi compagni lo avevano condotto promettendogli che sarebbe stato suo per sempre
Due interlocutori si confrontano, nell’ufficio di presidenza di un organismo agricolo bolognese. Alcuni amici seguono con passione il duello verbale. Sono trascorsi quasi dieci anni. Tema del confronto, Pinocchio il Gatto e la Volpe. Uno dei duellanti sostiene che il Gatto e la Volpe hanno chiuso il burattino in un sacco, e ne faranno quello che vorranno, l’avversario proclama che prendere Pinocchio per il naso non è così facile: nonostante il nasetto sia lungo i due compari non lo raggiungeranno mai, e sarà Pinocchio a servirsi dei due, lacché diligenti, per soddisfare i propri capricci.
Il confronto sull’apologo rivestiva di sembianze fiabesche il dissenso su un tema capitale dell’agricoltura nazionale, il quesito su chi fosse il vero signore della Confederazione nazionale dei coltivatori diretti. Pinoccio era, traducendo la metafora, Paolo Bedoni, presidente della medesima, il Gatto e la Volpe, Vincenzo Gesmundo e Franco Pasquali, i dioscuri dell’apparato burocratico che organizza, dal “pantano” di Ispica ai noceti della Carnia, il consenso dei piccoli proprietari italici.
Secondo il primo dei duellanti Bedoni, convertita la favola, non costituiva che un burattino nelle mani di chi, governando l’apparato, era in grado di sostituirlo, avesse contravvenuto alle disposizioni, in giornata. Secondo l’avversario il presidente della Coldiretti era il contadino furbo che, arrivato con le scarpe imbrattate di letame nel palazzo dei principi Rospigliosi, si era seduto in trono manifestando con tanta chiarezza le prerogative regali che la coppia più scaltra di un organismo che non ha mai consentito l’accesso, ai vertici, agli sciocchi, avrebbe dovuto piegare la testa e accettarne la preminenza.
La repentina, indecorosa caduta del contadino elevato al rango di principe pare dimostrare che chi proclamava, nel duello bolognese, inimmaginabile che il burattino potesse essere preso per il naso, non sapeva uscire dalla favola e riconoscere la realtà. E che chi sosteneva che al burattino poteva essere tolta la corona per essere posta, in giornata, su un’altra testa di legno, non faceva che riconoscere l’abissale differenza di potere, sull’apparato della Confederazione, del presidente contadino e dei suoi ministri. Nei quali identificava gli arbitri della promozione di ogni impiegato, dall’ufficio locale di Cavaion alle scrivanie cardinalizie di Palazzo Rospigliosi, reputando improbabile che quelle scrivanie potessero essere occupate da chi non assicurasse ai signori Pasquali e Gesmundo fedeltà assoluta e cieca obbedienza.
La caduta di Paolo Bedoni costringe, per il carattere repentino, a riflettere sul governo della prima organizzazione sindacale dell’agricoltura italiana, un governo che un peso tanto ingente esercita, gloriosamente, o, a scelta, tragicamente, su quello della patria agricoltura. Rilevando, innanzitutto, che non si tratta di un avvicendamento secondo le ordinarie procedure statutarie, assemblee, candidature, votazioni, ma di una defenestrazione. Qualche parvenza delle forme è stata rispettata, ma nessuno ha preteso che si credesse che erano più che parvenze.
Il primo rilievo induce ad uno conseguente: al vertice della Coldiretti si è compiuta la terza defenestrazione successiva. Arcangelo Lobianco, l’orgoglioso successore di Bonomi che aveva sognato di trattare i ministri dell’agricoltura come il predecessore aveva trattato quelli dei tempi suoi, fu defenestrato con un rispetto molto maggiore dei rituali statutari, ma nulla impedì agli osservatori meno attenti di verificare che di defenestrazione si trattava. Paolo Micolini, il successore, fu gettato dalla finestra con un rispetto delle forme che dimostrava una certa dose di scrupolo statutario, ma la defenestrazione fu ancora più palese. Verso Bedoni il rispetto delle forme è stato tale da dimostrare che a chi lo gettava dalle lesene cinquecentesche di Palazzo Rospigliosi non interessava più neppure il pudore.
Finestre generose di presidenti, quelle di Palazzo Rospigliosi! A ricordo degli uomini cui hanno offerto l’ebbrezza del volo si può ricordare che chi fu vicino a Lobianco assicura che il leader di Bitonto non avesse alcuna intenzione, poche settimane prima delle assise fatali, di rinunciare alle glorie del sindacalismo agricolo. Ma aveva consentito l’assalto degli avversari alla Federconsorzi, e aveva perduto lo storico baluardo economico. Pare gli sia stato detto che la perdita non era benemerenza tale da consentire un nuovo mandato. Il commiato fu celebrato con tutti gli onori: il copione comprese un’orazione commemorativa, lacrime e abbracci di commiato. Il mare di lacrime attenuò la caduta, che fu caduta drammatica.
Sul successore, chi lo conobbe proclama che era contadino ma non sciocco, e che da buon contadino, consapevole delle proprie capacità e dei propri limiti, non avrebbe mai osato sfidare Lobianco, il tribuno che godeva tra gli associati di affetti sinceri e diffusi. Qualcuno, appare verosimile, avrebbe spiegato a Micolini che Lobianco doveva lasciare, e che bastava salire sulla tribuna: tutto avrebbe seguito il copione.
Neppure Micolini, proclama, ancora, chi ebbe il piacere di conoscere il grande friulano, aveva intenzione, quando toccò a lui la finestra, di gettarsi. Ma l’antico contadino era stato senatore, e, come senatore, sedutosi sul trono romano aveva manifestato tutto l’affetto per il potere. E’ probabile che le pretese esorbitassero dai patti stabiliti al momento dell’investitura: qualcuno, probabilmente, glie lo ricordò. E Paolo Micolini affrontò il salto.
Salto felice, piuttosto tuffo che salto, terminato in un accogliente mare di latte. Da qualche anno il senatore intratteneva i rapporti più cordiali con un protagonista intemerato dell’agroindustria nazionale, Sergio Cragnotti, che prima che atterrasse lo aveva insignito della presidenza della Cirio. Il grande businessman aveva rilevato la Cirio, riferiscono le cronache, a un prezzo che suscitò molte chiacchiere, dal professor Prodi, gran manager dell’Iri, e l’aveva aggiunta all’impero lattiero la cui prima pietra era stata la società Polenghi Lombardo, rilevata dal fallimento della Federconsorzi. Si mormorò che la Polenghi Lombardo valesse assai più di quanto era scritto nei bilanci, che riportavano poste ermetiche. Qualcuno ne aveva illustrato il significato al signor Cragnotti. Paolo Micolini era stato presidente della società di latte e formaggio. Per la vicenda Cragnotti fu “intervistato” dal sostituto procuratore di Perugia, Razzi. Prima dell’interrogatorio gli entusiasti di “latte e formaggio puliti” contavano che nel corso dell’incontro l’interpellato avrebbe potuto provare l’emozione delle manette. Illusioni? Dell’interrogatorio dovrebbe sussistere il verbale.
Mentre i burattini volavano dalle finestre di Palazzo Rospigliosi il Gatto e la Volpe, possiamo notare, continuavano a presidiare gli appartamenti principeschi del presidente venturo. I primi defenestrati avevano conosciuto i fastidi di vicende incresciose: Federconsorzi, Polenghi, Cirio. Vincenzo Gesmondo e Franco Pasquali vantano un posto tra i protagonisti del crack della Federconsorzi, di cui furono sindaci attestando, sistematicamente, la regolarità di bilanci di cui schiere di commissari ministeriali e di magistrati hanno sospettato la falsità. Per le benemerenze di controllori meticolosi sono stati rinviati a giudizio per bancarotta fraudolenta, dal Procuratore della Repubblica di Roma, il 6 giugno 1997 (rinvio 3988/93, foglio 2 e segg.), ma, non rivestendo ruoli statutariamente rilevanti, l’infortunio non ha prodotto conseguenze sgradevoli. Né le produrrà mai il processo, le cui udienze sono state regolarmente iscritte all’albo, per essere sempre rinviate, in attesa del felice compimento dei termini di prescrizione.
Tanto che se dall’apologo deve trarsi, come da tutti gli apologhi, una “morale” non v’è dubbio che questa ammonisca il futuro presidente della Confederazione italiana dei coltivatori diretti a non ripetere le prodezze di Pinocchio, e di essere certo, prima di avvicinarsi ai davanzali della propria sontuosa magione, di non avere mai tirato la coda al Gatto, né di avere pestato la zampetta della Volpe.
- Antonio Saltini
SPAZIO RURALE, LII n. 2, febbraio 2007