Federconsorzi: storia di un'onta nazionale/III/8
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Le reazioni della stampa alla sentenza di Perugia sullo scandalo Federconsorzi
Dopo lunghi anni di indagini il Tribunale di Perugia ha condannato, con una sentenza coraggiosa, chi ha trasformato il fallimento della Federconsorzi nella più colossale appropriazione dei beni di un ente male amministrato della storia d’Italia, ha scritto a caratteri indelebili una delle pagine più vergognose della storia del Paese. Sapranno mostrare altrettanto coraggio i giudici romani chiamati a concludere il processo che dovrebbe rispondere agli interrogativi correlati sull’inquietante vicenda?
“Professore, perché tanto accanimento dei giudici contro di lei?” Questa domanda al condannato ha costituito la risposta della stampa legata ai potentati finanziari alla sentenza con cui il Tribunale penale di Perugia ha condannato alla detenzione Pellegrino Capaldo, presidente di banche e società finanziarie, e Ivo Greco presidente della Sezione fallimentare del Tribunale di Roma, cui aveva imputato di avere manipolato la procedura fallimentare aperta sulla Federconsorzi, la holding cooperativa che forniva all’agricoltura italiana i servizi di centinaia di depositi di cereali, di officine di trattori, di punti di distribuzione di antiparassitari, fertilizzanti e carburanti. Gli imputati erano accusati di avere occultato il valore del patrimonio e di avere operato perché di quel patrimonio potesse appropriarsi, a danno degli agricoltori italiani, dei soci, dei dipendenti e degli altri creditori, un gruppo di grandi banche.
Pochi dei giornali che hanno intervistato, all’indomani della sentenza, il professor Capaldo, lamentando l’iniquità dei giudici, avevano fornito ai lettori, nel corso delle lunghe indagini, qualche riga sul processo che sottoponeva a giudizio quello che appariva il maggiore scandalo fallimentare della storia della Patria: al confronto lo scandalo celeberrimo della Banca Romana, l’antico antecedente dell’istituto presieduto da Capaldo, trascolora, per la diversità dei valori, in piccolo imbroglio del sottobosco politico di una nazione contadina. Poche righe che del rilievo della vicenda erano incapaci di permettere la percezione: comprensibile l’indignazione dei lettori, che apprendevano della condanna a conclusione di un processo che il quotidiano di fiducia aveva praticamente ignorato, mancando di accendere il timore dell’esecrabile eventualità che i giudici di Perugia potessero meditare la condanna di persone tanto influenti, stimate, inattaccabili quali il professor Capaldo ed il dottor Greco.
Che a Perugia si potesse giungere ad una condanna era eventualità esclusa da tutti gli osservatori: troppo influenti gli imputati, troppo ingenti gli interessi economici di cui Capaldo è l’alfiere, troppo eloquente il silenzio della stampa durante i lunghi anni di indagini, oltre al dubbio aleggiante dell’assonanza tra i vertici del potere finanziario e quelli dell’autorità giudiziaria. Chi dubitava della possibilità di una condanna credeva di reperire una conferma dei propri timori nell’arringa del pubblico ministero, il dottor Dario Razzi, che, protagonista di un’inchiesta di straordinario coraggio, di assoluto rigore, di ammirevole lucidità, pareva essere stato impressionato dal minaccioso silenzio della stampa, dal trasparente sostegno degli imputati da parte del potere politico e finanziario, e non offriva, il giorno fatidico delle conclusioni, una prova particolarmente brillante di eloquenza, a causa, è stato spiegato, di un malessere autunnale.
Se il pubblico ministero non godeva, il giorno dell’arringa, delle proprie condizioni migliori, la messe di prove accumulate dal dottor Razzi durante le indagini preliminari, confermate dagli interrogatori durante il dibattimento, imbrigliava i difensori degli imputati, un Gotha di principi del foro, in pastoie da cui non parevano in grado di districarsi, assicurava agli avvocati di parte civile, il drappello dei giovani legali che tutelavano gli enti ed i privati danneggiati dal fallimento, gli strumenti di un attacco che sommergeva gli imputati nelle prove di colpevolezza. Razzi stesso, superata la giornata infausta, si profondeva, nella replica finale, in un saggio di efficacia oratoria che suscitava l’ammirazione di tutti i presenti. Il tribunale condannava a pene maggiori di quelle richiesta dal pubblico ministero.
Per la lucidità e il coraggio di un magistrato inquirente e di una giuria penale il Paese può capire, ora, una pagina capitale della storia delle proprie istituzioni agricole, le modalità con le quali è stato distrutto il maggiore patrimonio a servizio dell’agricoltura nazionale, un insieme di silos portuali, di stabilimenti per trasformare il latte in formaggi, la frutta in succhi e confetture, di fabbriche di concimi, un organismo che, creato dagli spiriti più lungimiranti dell’agricoltura italiana nel corrusco crepuscolo dell’Ottocento, è stato potenziato, in un secolo di attività, dall’opera di migliaia di amministratori, dai contributi di decine di governi, il supporto della Nazione a un’agricoltura che essa voleva moderna, funzionale, dinamica. Quel patrimonio, che i cultori di economia agraria di qualche esperienza sapevano valere dieci, forse dodicimila miliardi, è stato stimato, dai periti scelti dal dottor Greco, meno delle cinque migliaia di miliardi del passivo dell’organismo. Perché meno dell’entità del passivo? Fosse stato stimato superiore di una lira sola alle passività, i curatori del fallimento sarebbero stati costretti a convocare l’assemblea dei soci, i presidenti dei consorzi agrari provinciali, e in quell’assemblea una voce, anche una voce sola, avrebbe potuto levarsi e denunciare l’enormità del delitto che si stava compiendo. Attribuire al patrimonio della Federconsorzi un valore inferiore alla somma dei debiti non consentiva solo, peraltro, di imbavagliare i soci, apriva la strada a quello che Perugia ha dimostrato avere costituito il disegno criminoso dei condannati: convincere la maggioranza dei creditori ad accettare il trasferimento di quel patrimonio ad un novero ristretto di banche, che assumeva l’onere di liquidare i creditori diversi secondo la percentuale minore che questi accettassero a risarcimento di quanto loro dovuto, riservandosi il lucro della differenza tra il valore concordato e quello obiettivo. Che chi aveva immaginato il piano, e affidato le stime a periti di fiducia, sapeva essere ampiamente superiore non solo alla percentuale concordata con i creditori, ma all’entità complessiva dei crediti prima della loro decurtazione.
Chiarito, da una sentenza che fornisce, a supporto della condanna, un novero di prove che fonda la più solida sicurezza penale, morale e storica, che il patrimonio era superiore al passivo, si impongono due domande inquietanti: La prima: se tutti gli esperti di economia agraria conoscevano il valore del patrimonio della Federconsorzi, è possibile che potessero ignorarlo coloro che direttamente, dal consiglio di amministrazione, o indirettamente, dal vertice di due organizzazioni professionali, governavano l’organismo? Supporlo non è possibile. Ma perché, allora, ed è la seconda domanda, a difesa della Federconsorzi, i responsabili non hanno usato uno solo dei mezzi che il diritto fallimentare offriva loro, dalla convocazione dell’assemblea all’impugnazione degli atti procedurali?
L’impossibilità di una risposta apre tre quesiti complementari. Erano dunque tanto gravi le colpe degli amministratori nell’accumulo di cinque migliaia di miliardi di debiti, da impedire loro qualunque difesa? Quell’impossibilità ha offerto l’occasione a qualcuno, nel mondo oscuro in cui si consumava, sotto lo scettro di Andreotti, il tramonto della Democrazia Cristiana, di ricattarli, e di lasciare il grande galeone cooperativo indifeso di fronte all’assalto di tutte le filibuste finanziarie? O v’erano, forse, a aprire la strada al ricatto, anche ragioni diverse dalla cattiva amministrazione? Sono domande cui non si potevano attendere risposte dal processo di Perugia, che la sentenza di Perugia impone con cogenza. E’ tuttora aperto, a Roma, un secondo processo, contro gli amministratori della Federconsorzi negli anni del naufragio, il processo che dovrebbe stabilire le responsabilità degli uomini cui gli agricoltori italiani avevano rimesso la guida del grande apparato cooperativo che quegli uomini hanno condotto al disastro. Da quel processo potrebbe venire la risposta che consentirebbe di definire l’insieme della vicenda che ha chiuso un ciclo secolare della storia dell’agricoltura nazionale. Ma avranno i giudici di Roma, contro le pressioni dell’alta finanza, contro il silenzio della grande stampa, il coraggio che hanno saputo dimostrare, a Perugia, un pubblico ministero e un collegio giudicante?
Il giornale dell’Umbria, 21 dicembre 2002