Faust/Parte terza/Paralipomeni/Notte classica di Valburga
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Traduzione dal tedesco di Giovita Scalvini, Giuseppe Gazzino (1835-1857)
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NOTTE CLASSICA DI VALBURGA.
Fausto. Spingi pur quanto sai l’acume delle pupille, e parrà debole ognora la tua vista per queste pianure: i diavoli qui non han che fare; da ogni lato non si riscontran che Dei.
Mefistofele. L’occhio ne vuol la sua parte. Che senso ti fanno eglino tutti questi pagani nudi? Se mi piglia il ticchio di amare, piacemi d’avere alcun velo da strappar via.
Mefistofele. Se gioventù e saggezza potessero insieme far lega, se potessero esistere le repubbliche senza virtù, a corto andare il mondo toccherebbe l’apice della sua perfezione.
Mefistofele. Ohibò! dovresti arrossire del tuo affannarti sulle orme della fama: non v’ha che un cerretano il quale ne provi il bisogno. Non sai tu dunque delle tue facoltà far miglior uso che non sia quello di ringalluzzarti inutilmente al cospetto degli uomini? Strepita per poco la rinomanza e s’addormenta, e lo stesso obblio travolge l’eroe e il farabutto. Il re più grande e famoso chiude gli occhi, e il più lurido cagnaccio schiatta sul suo giaciglio. Semiramide non tenne forse in bilico tra la pace e la guerra le sorti di mezzo il mondo? E negli estremi istanti, non fu ella grande così come nel giorno primiero della sua dominazione? Nondimeno, le avviene appena di soccombere sotto a’ colpi imprevisti della morte, che migliaia e migliaia d’immondi insetti piombano da ogni parte, sicchè ne brulica il cadavere da imo a sommo. Colui che ha la intelligenza di ciò che è appariscente e convenevole, è accorto non meno a scegliersi una modesta e tempestiva corona: ma lascia che un secolo scorra sulla tua gloria, e veruno al mondo saprà di quel che fosti dir pure un motto.
Mefistofele. E quando vi salta la mosca, quando vi recate a sostenere ch’io adopero con voi modi bruschi troppo e villani. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Perocchè, chi vien oggi a dirvi una dura e ingrata verità, fia che per migliaia d’anni ve la ricanti.
Mefistofele. Val tenta la sorte, e dopo esserti per ogni guisa avvoltolato in una fecciosa e vigliacca ipocrisia, rifà il cammino sfinito e impotente a nuovi conati. Raro è che l’uomo si capaciti di cosa che nol carezzi e lusinghi. Parla a’ devoti delle ricompense accordate alla virtù; di nubi, con Issione; di mae stoso contegno co’ re; e col popolo d’eguaglianza ragiona e di libertà.
Fausto. Nè anche adesso varrai a sopraffarmi con questa tua smaniosa febbre di tutto struggere, con quel tuo occhio di tigre e colla tua cera imperiosa. Intendila una volta, se nol sai. L’uomo ha l’udito sopraffino; una schietta parola lo spinge alle belle azioni; l’uomo sa troppo bene ciò che gli manca, e a’ gravi e sodi consigli volenteroso si arrende. Con tali principii mi dilungo da te, e allora ch’io torni, nè andrà molto, mi vedrai glorioso e trionfante.
Mefistofele. Vanne, oh! vanne pure, scortato dalle preziose tue doli! Io me la rido di cuore in veggendo un malto affannarsi per tanti altri matti suoi pari: fra’ quali non por uno troveresti che non si désse a credere d’avere in sè una dose bastevole di saggezza: accorti solo nel conoscere quando oro od argento lor manchi.
Mefistofele. Ciò che vi dà sollecitudine maggiore e maggiore affanno, è il più delle volte cosa scipita e da nulla. A cagion d’esempio, il pane cotidiano non è poi certo il cibo più dilicato e squisito; e la morte? per quanto nulla pareggi al mondo la sua scipitaggine, avvi cosa per avventura che sia più comune?