Pagina:Fausto, tragedia di Volfango Goethe, Firenze, Le Monnier, 1857.djvu/540

532 fausto.

crisia, rifà il cammino sfinito e impotente a nuovi conati. Raro è che l’uomo si capaciti di cosa che nol carezzi e lusinghi. Parla a’ devoti delle ricompense accordate alla virtù; di nubi, con Issione; di mae stoso contegno co’ re; e col popolo d’eguaglianza ragiona e di libertà.

Fausto. Nè anche adesso varrai a sopraffarmi con questa tua smaniosa febbre di tutto struggere, con quel tuo occhio di tigre e colla tua cera imperiosa. Intendila una volta, se nol sai. L’uomo ha l’udito sopraffino; una schietta parola lo spinge alle belle azioni; l’uomo sa troppo bene ciò che gli manca, e a’ gravi e sodi consigli volenteroso si arrende. Con tali principii mi dilungo da te, e allora ch’io torni, nè andrà molto, mi vedrai glorioso e trionfante.

Mefistofele. Vanne, oh! vanne pure, scortato dalle preziose tue doli! Io me la rido di cuore in veggendo un malto affannarsi per tanti altri matti suoi pari: fra’ quali non por uno troveresti che non si désse a credere d’avere in sè una dose bastevole di saggezza: accorti solo nel conoscere quando oro od argento lor manchi.


Mefistofele. Ciò che vi dà sollecitudine maggiore e maggiore affanno, è il più delle volte cosa scipita e da nulla. A cagion d’esempio, il pane cotidiano non è poi certo il cibo più dilicato e squisito; e la morte? per quanto nulla pareggi al mondo la sua scipitaggine, avvi cosa per avventura che sia più comune?