Faust/Parte prima/Prologo sul teatro
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Traduzione dal tedesco di Giovita Scalvini, Giuseppe Gazzino (1835-1857)
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PROLOGO SUL TEATRO.
Il DIRETTORE, il POETA del teatro, il FACETO.
Il Direttore. Voi due che solete essere il mio consiglio e il mio aiuto, su, ditemi: che sperate voi in paese tedesco dalla nostra impresa? Io ho gran desiderio di dare nel talento della moltitudine, da che in ultimo ella vive e lascia vivere. Le travi sono confitte, inchiodate le tavole, ogni cosa in pronto, e ciascuno si promette una lieta e magnifica festa. Già seggono cheti, con sopracciglia inarcate e vogliosi di fare le maraviglie. Ben io so quello che ne rende benevoli i più, e nondimeno io non sono mai stato in più dura irresoluzione. Perchè è il vero che costoro non sono gran fatto usi alle squisitezze, ma hanno pur letto tanto che è uno spavento. Come ne usciremo adunque? come troveremo alcuna cosa che abbia novità e nel tempo medesimo non sia sciocca? Chè, il vo’ pur dire, a me il popolo piace oltremodo quando il veggo traboccarsi a torrenti verso il nostro casotto, e urtando e sbuffando voler di forza insaccarne la porta, come se la fosse quella del cielo. Bello è vederlo nel pieno giorno, prima delle quattro, far serra intorno al botteghino, e come nei dì della fame per pane allo sportello d’un fornaio, per poco non fiaccarsi il collo per un biglietto. E un sì gran miracolo sopra tanta varietà di animi sa farlo il solo poeta. Oh, fammelo, amico mio! fammelo oggi.
Il Poeta. Deh, non mi parlate di quel tuo volgo multiforme, dinanzi al quale fugge e si oscura l’ingegno. Celami all’ondante moltitudine che nostro mal grado ne travolge nella vorticosa sua piena. Oh, lungi da essa! ponimi nelle romite e serene regioni, dove candida gioia può sol fiorire al poeta; dove l’amore e l’amicizia gli vegliano intorno, e gli compartono tutto ciò che più fa beato il nostro cuore.
Ahi, e quello che prorompeva dal petto profondo, e quello che mormoravi con timido labbro — quando riprovevole, e quando forse non indegno di lode — egli ti è capricciosamente ingoiato dall’istantanea fortuna. E sovente ancora è bisogno del volgere degli anni perchè il nostro concetto appaia splendido di bellissima forma. Ciò che subito sfavilla muore rapidamente, ma il semplice e sincero si riserva alla posterità.
Il Faceto. Io vorrei pur una volta non udir parlare della posterità; perchè, poniamo ch’io pure non avessi altro nel pensiero che i posteri, chi più darebbe sollazzo a’ presenti? ed ei pur vogliono e deono averne. Nè mi par poi che un giovane di bel garbo sia da stimarsi nulla perchè vive oggi. Chi sa gradevolmente compiacere agli animi altrui non avrà mai a dolersi dei dispetti del volgo; anzi egli si desidera una gran raunanza perchè gli verrà meglio fatto di sollevarla. Però siate animoso: mettetevi innanzi come modello; lasciate spaziare la fantasia col suo corteo del senno, degli affetti, delle passioni; ma — date retta — vuol esservi anche la pazzia.
Il Direttore. Sopra tutto non siatemi scarso di eventi. Viensi per vedere; quello che importa è vedere: date pascolo agli occhi, e quando giugniate a farli ben bene spalancare alla moltitudine, voi siete sicuro del fatto vostro, siete l’amore, siete il vezzo di tutti. Solo col molto attrarrete i molti, perchè in una farraggine di cose ciascuno ne raccapezza qualcuna che fa al caso suo. Chi porta molto porta per tutti, e tutti se ne tornano a casa col contento nel cuore. Pagate in ispiccioli; — mescete sapori d’ogni sorta, e un simil manicaretto andrà ad ogni gusto, e voi sarete alzato in cielo. Subito immaginato e subito imbandito. Che vi giova stillarvi il cervello per offerire alcun che d’intero? Il pubblico ve lo mette tosto in minuzzoli.
Il Poeta. Voi non v’accorgete quanto un sì fatto mestiere sia vile; quanto sconvenevole all’artista che ha a cura il suo nome. Gl’imbratti di non so che odierni guastamestieri sono ormai, ben veggo, i vostri modelli.
Il Direttore. Io non mi piglierò a male i vostri rimproveri; che chi voglia fare buon’opera deve pure scegliere gli istrumenti più acconci. Ora avvertite che son legne fradice che vi bisogna schiappare, e considerate un po’ per chi vi è domandato di scrivere. Mentre gli uni son qui sospinti dalla noja, gli altri ci vengono pieni zeppi di cibo, e, quel che è peggio, parecchi hanno pur dianzi letto la gazzetta. Tutti tirano sbadati alla nostra volta come n’andassero alle mascherate, e solo la curiosità dà ali ai loro piedi. Le dame si assettano quanto più sanno, e sfoggiate fanno spettacolo di sè per nulla. Ora, che vi state voi sognando in sulla cima del vostro parnaso? E chi è, secondo voi, che ci rallegrerà cotesta brigata? Miratali ben da presso quei nostri mecenati: parte sono di gelo, parte son ceppi: e chi dopo la commedia si promette una partita alle carte, e chi una cosa, chi l’altra; e voi vorrete, poveri pazzi, tribolare le dolci muse per simile stampa di gente? Io vel ridico, pascetela di maraviglie; dategliene giù e giù, e vie più giù, che a questo modo ne verrete a capo. Gli uomini bisogna stordirli, che contentarli è arduo. — Ma che è di voi? patite, o vi agita l’estro?
Il Poeta. Va a cercarti un altro schiavo! Sì, in vero che il poeta dovrà a tuo beneplacito profondere le alte sue facoltà – il maggior dono di cui la natura fosse provvida all’uomo! Ond’è ch’egli agita ogni petto? Ond’è ch’ei regna sulle intrinseche virtù che informano le cose? Non fosse per l’armonia ch’egli spande fuori di sè, e ne ravvolge il creato e lo attira e ricompone nell’anima sua? Mentre la natura trae alla conocchia e con indifferenza torce il perpetuo svolgersi dello stame; e mentre la confusa moltitudine delle esistenze muove discorde in qua e là, e le une cozzano dissonando contro dell’altre, — chi pone ordine in quel fastidioso, interminabile succedersi loro, e le avviva e lega in geniale concordia? Chi richiama l’errante e lo scompagnato ad affratellarsi cogli altri mortali? Chi scioglie le procelle delle passioni? Chi rasserena il rigido pensiero dell’uomo nella sera della vita? Chi sparge i soavi fiori della primavera sul cammino della donna innamorata? Chi intreccia le inutili fronde e ne fa onorevol ghirlanda al merito di ogni maniera? Chi preserva l’Olimpo? chi riconcilia gli Dei? La gran possanza dell’uomo rivelatasi nei poeti.
Il Faceto. E usatele adunque sì belle facoltà, e fate ire innanzi il lavoro poetico al modo di una ventura d’amore. Ben sapete; ci avviciniamo per caso, proviamo non so che allettamento, rimaniamo, e passo passo eccoci avviluppati: alle speranze si mescono le ansietà, alle piene beatitudini seguono le ruine, e prima che ce n’avveggiamo abbiam fatto un romanzo. Orsù, diamo noi pure uno spettacolo sù quell’andare. Sol fate di cercare ben addentro alle viscere della vita: tutti la vivono; ma è nota a pochi, e di qualunque lato la sappiate pigliare la è sempre interessante. Voglionci fantasie di ogni colore e non troppa chiarezza; voglionci molti errori temperati da qualche barlume di vero, e ne riesce, senza alcun fallo, un cordiale che ristora ogni petto. E il bel fiore della gioventù vi fa cerchio d’intorno e porge orecchio alle vostre rivelazioni; e ogni tenera anima si sente stillar dentro una soave mestizia: ora è commosso questi ed or quegli; ognuno si ricorda di sè in altrui o scorge nelle vostre finzioni quel ch’egli porta nel cuore. E sono ad un tempo facili al ridere e facili al piangere; ammirano il volo del vostro ingegno, e si dilettano sopra ogni cosa degli apparimenti e degli sfoggi. Nulla contenta l’uom fatto, ma la crescente gioventù piglia ogni cosa in buon grado.
Il Poeta. E tu rendi a me pure i miei anni immaturi; quando il fiume del canto sgorgava rigoglioso e perenne; quando fra me e il mondo era un velo di nubi, — e il calice ancor ravvolto in sul cespo mi era presago di meravigliose fragranze; — quand’io coglieva gl’innumerevoli fiori profusi per ogni valle. Io non aveva nulla, e non pertanto io aveva a pieno; perchè io avevo l’amore infaticabile del vero e la soavità dell’illusione. Rendimi il mio selvaggio talento; l’affannata felicità, la forza dell’odio e l’impeto dell’amore, — rendimi la mia giovinezza.
Il Faceto. Della giovinezza, mio buon amico, tu avresti veramente bisogno, se tu fossi d’ogni intorno incalzato dal nemico in battaglia; se la corona, premio della rapida corsa, ti accennasse di lontano la meta o, se, dopo l’impeto vertiginoso della danza, tu dovessi tutta notte gozzovigliare. Ma toccare con lena e leggiadria le docili corde; muovere con piacevole errore verso un segno postoci innanzi da noi a diletto, quest’è, miei dolci vecchi, l’ufficio vostro, e non pertanto noi non vi onoriam meno. Chè la vecchiaja non ci ritorna, come suol dirsi, fanciulli, ma ben ci fa rigodere veramente della fanciullezza.
Il Direttore. Orsù, non più parole, ma fatti; chè mentre voi ve la passate. in complimenti, puossi far cosa profittevole. Che rilevano i tanti cicalecci di quel che si richiede a ben poetare? Nessun fervido estro agiterà mai il petto degli irresoluti; e poichè volete pur dirvi poeti, vi è d’uopo avere la poesia ai cenni vostri. Ormai vi è noto quello che ne bisogna: noi vogliamo ber forte, però mesceteci conforme la voglia, e tosto! Ciò che non si toglie a far oggi non è fatto domani, e mandare in lungo è rare volte da savio. L’uomo risoluto piglia di tratto un partito nel crine, e il tiene e seguita innanzi perchè non può dismettere.
Voi sapete che sulle scene tedesche ciascuno tenta ciò che gli viene in talento; laonde non vogliate oggi perdonare nè ad apparati nè a macchine; giovatevi del maggiore e del minore luminare del cielo, profondete le stelle; noi abbiamo in pronto e acqua e fuoco e rocce e fiere ed uccelli; squadernate quindi in questa casipola di assi tutta quanta la creazione, e con ponderata velocità calate dal cielo, e attraversando per la terra, discendete all’inferno.