Eureka/Eureka/IV.

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IV.

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Edgar Allan Poe - Eureka (1848)
Traduzione dall'inglese di Maria Pastore Mucchi (1902)
IV.
Eureka - III. Eureka - V.

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IV.


Come punto di partenza, dunque, adottiamo lo Spirito di Dio. Non è sciocco, non è empio soltanto colui il quale non afferma niente di questo Spirito di Dio in sè stesso. «Nous ne connaissons rien», dice il Barone di Bielfeld — «Nous ne connaisson rien de la nature ou de l’essence de Dieu: — pour savoir ce qu’ il est, il jaut être Dieu méme». — «Non conosciamo assolutamente niente della natura o dell’essenza di Dio — per comprendere ciò che egli è, noi dovremmo essere Dio stesso.»

«Noi dovremmo essere Dio stesso!» — Malgrado questa frase spaventevole ancor risonante al mio orecchio, io mi avventuro a domandare se questa nostra presente ignoranza [p. 26 modifica]della Deità sia una ignoranza a cui l’anima sia eternamente condannata.

Tuttavia, almeno per ora, accontentiamoci di supporre che fu Lui, Lui l’Incomprensibile, considerandolo come Spirito, non come Materia (distinzione che supplirà bene una definizione per ogni chiara deliberazione), Lui, esistente dunque come Spirito che ci ha creati o fatti dal Nulla per forza della sua Volontà — in un certo punto dello Spazio che noi prenderemo come centro — in un certo periodo di tempo che noi non pretenderemo d’investigare, ma che, ad ogni modo, è immensamente remoto — supponiamo dunque di essere stati creati da Lui. — Che cosa? — questo è un punto di vitale importanza nelle nostre considerazioni — che cosa può ajutarci a giustificare — solamente a giustificare — la nostra supposizione di essere stati primitivamente e individualmente creati?

Noi siamo giunti a un punto in cui l’Intuizione soltanto può ajutarci — ma ora lasciatemi ritornare ad un’idea che io ho già suggerita come quella sola che noi possiamo propriamente accettare dell’intuizione. L’intuizione, dunque, non è che la convinzione sorgente da quelle induzioni o deduzioni i cui processi sono così pieni di mistero da sfuggire alla nostra conoscenza, da eludere la nostra ragione, da sfidare la nostra capacità d’espressione. Ciò inteso, io asserisco ora che un’intuizione assolutamente irresistibile, quantunque inesprimibile, mi spinge a questa conclusione, che ciò che Dio creò originalmente, che quella Materia che, per la forza della sua Volontà, egli creò dapprima traendola dal suo spirito o dal Nulla, non può essere stato altro che la Materia nel suo più alto grado concepibile di — di che cosa? — di Semplicità?

Questa sarà la sola ipotesi assoluta del mio Discorso. Io uso la parola «ipotesi» nel suo senso ordinario; tuttavia io sostengo che anche questa mia proposizione primordiale è molto, molto distante davvero dall’essere realmente una semplice ipotesi. Non vi fu mai nulla di più certo — nessuna conclusione umana fu mai dedotta più regolarmente — più rigorosamente: — ma, ahimè! i procedimenti sfuggono all’analisi umana — sono superiori, in tutti i casi, all’espressione della favella umana.

Procuriamo ora di concepire ciò che la Materia ha potuto o dovuto essere nella sua condizione assoluta di Semplicità. Qui la Ragione si slancia subito nell’Imparticolarità — ad una particella — un’unica particella — una particella unica nella sua specie — unica nel suo carattere — unica nella sua natura — unica nel suo volume — unica nella sua forma — una particella, quindi, «senza forma e chimerica» — una particella assolutamente unica, individuale, indivisa, ma non indivisibile, perchè Colui che la [p. 27 modifica]creò, per forza della sua Volontà, può, senza dubbio, dividerla con uno sforzo della stessa Volontà infinitamente meno energico.

L’Unità, dunque, è tutto ciò che io affermo della Materia originariamente creata; ma io mi propongo di dimostrare che quest’Unità è un principio largamente sufficiente per spiegare la costituzione, l’esistenza fenomenica e, per lo meno, l’annientamento evidentemente inevitabile dell’Universo materiale.

La volontà di esistere nella particella primordiale ha completato l’atto o più esattamente la concezione della creazione. Procediamo ora verso lo scopo ultimo, per il quale noi supponiamo che sia stata creata la Particella - vale a dire, procediamo verso lo scopo ultimo finchè le nostre considerazioni ci permettano ancora di vedere la costituzione dell’Universo tratto da questa Particella.

Questa costituzione è stata effettuata trasformando l’originaria e perciò normale Unità nella condizione anormale della Pluralità. Un’azione di questo genere implica una reazione. Una diffusione dall’Unità condizionalmente, implica una tendenza a ritornare nell’Unità — una tendenza indistruttibile sino a che non sarà soddisfatta. Ma su questi punti, parlerò in seguito più ampiamente.

L’ipotesi dell’Unità assoluta nella Particella primordiale include l’ipotesi di una divisibilità infinita. Concepiamo, adunque, la Particella come non totalmente esausta dalla diffusione attraverso lo Spazio. Supponiamo che dall’unica Particella, presa come centro, si irradimo sfericamente — in tutte le direzioni — verso tutte le distanze incommensurabili, ma tuttavia definite, dello spazio vuoto fino a quel momento — si irradiino, dico, un numero di atomi inesprimibilmente grande, per quanto limitato; d’atomi indicibilmente per quanto non infinitamente minuti.

Ora, di questi atomi così diffusi, o allo stato di diffusione, quali condizioni possiamo noi non assumere, ma desumere, tanto dalla considerazione della loro sorgente, quanto dal carattere dello scopo apparente della loro diffusione? L’Unità essendo la loro sorgente e la differenza dall’Unità essendo il carattere del piano manifestato nella loro diffusione, noi siamo autorizzati a supporre che questo carattere si è, almeno generalmente, conservato in tutto il piano e forma una parte del piano medesimo — vale a dire, noi siamo autorizzati a concepire, sotto tutti gli aspetti, continue differenze dall’Unità e dalla semplicità dell’origine Ma per queste ragioni saremo noi autorizzati a imaginare gli atomi eterogenei, dissimili, ineguali ed inequidistanti? Più esplicitamente, non potremo noi trovare neppure due atomi della stessa forma, della stessa dimensione o della stessa natura all’atto della loro diffusione nello spazio? — [p. 28 modifica]e dopo quest’atto l’inequidistanza assoluta fra l’uno e l’altro può essere considerata come una qualità comune a tutti? In un simile ordinamento, sotto tali condizioni, noi possiamo facilmente e immediatamente comprendere il susseguente processo più eseguibile verso il compimento di alcuni di quei disegni che ho già suggerito — il disegno di trarre la varietà dall’unità — la diversità dall’uguaglianza — l’eterogeneità dall’omogeneità — la complessità dalla semplicità; — in una parola di trarre la massima molteplicità possibile di rapporti dall’Unità enfaticamente assoluta. Senza dubbio quindi noi saremmo autorizzati a supporre tutto ciò che è stato detto, se non riflettessimo: 1.° che la supererogazione non è ammissibile nell’Atto Divino; 2.° che lo scopo prefisso appare facilmente conseguibile così quando alcune delle condizioni in questione sono ammesse fin dal principio, come quando si capisce che tutte le condizioni esistono immediatamente. Io intendo dire che alcune di esse sono involte nelle altre e sono una conseguenza così istantanea di esse da rendere impossibile la distinzione. La differenza di dimensione, per esempio, verrà subito creata dalla tendenza di un atomo verso un secondo atomo, a preferenza di un terzo, a cagione di una inequidistanza particolare; la quale si dovrà comprendere come la inequidistanza particolare tra centri di quantità negli atomi vicini di forma differente — cosa che non si oppone affatto alla distribuzione generalmente uguale degli atomi. Si comprenderà facilmente che anche la differenza di specie non è che il risultato delle differenze di dimensione e di forma, considerate più o meno unitamente; in fatto, giacchè l’Unità della Particella propriamente detta implica una omogeneità assoluta, noi non possiamo imaginare che gli atomi, nell’atto della loro diffusione, cambino di specie, senza imaginare ailo stesso tempo un movimento speciale della Divina Volontà, all’emissione di ogni atomo, collo scopo di effettuare in ciascuno di essi un cambio nella loro natura essenziale; non dobbiamo assolutamente abbandonarci ad un’idea così fantastica, considerando che lo scopo prefisso è perfettamente effettuabile anche senza tale minuta ed elaborata interposizione. Noi vediamo quindi, tutto ben pesato, che sarebbe surerogatorio e conseguentemente non filosofico attribuire agli atomi, per quanto riguarda le loro intenzioni, qualche cosa di più che la differenza di forma nell’atto della loro dispersione, con uria inequidistanza particolare dopo quest’atto — tutte le altre differenze nascendo insieme dalle prime, nei primi processi di formazione della massa. — Noi stabiliamo così l’Universo su di una base puramente geometrica. Naturalmente, non è per nulla necessario di ammettere più tosto una differenza assoluta anche di forma fra tutti gli atomi irradiati — che un’assoluta inequidistanza [p. 29 modifica] particolare di ciascun atomo. Noi possiamo concepire semplicemente che nessun atomo vicino possa essere di forma uguale e che nessun atomo potrà mai approssimarsi ad un altro fuorchè all’atto della loro inevitabile riunione finale.

Sebbene l’immediata e perpetua tendenza degli atomi disuniti a ritornare nella loro Unità normale, sia implicata, come ho già detto, nella loro anormale diffusione, tuttavia è chiaro che questa tendenza sarà senza conseguenza — sarà una tendenza e nulla più — finchè l’energia diffusiva, cessando d’agire, lascierà la tendenza libera di cercare la sua soddisfazione. Tuttavia considerando l’Atto Divino come finito e interrotto nel momento della diffusione, noi concepiamo, subito, una reazione — in altre parole, una tendenza soddisfacente degli atomi disuniti a ritornare in Uno solo.

Ma l’energia diffusiva essendo cessata, e la reazione essendo cominciata in favore dello scopo finale — quello di formare la maggior quantità possibile di Rapporti — questo scopo è ora in pericolo di essere frustrato, nei particolari, a cagione di quella stessa tendenza a ritornare che serve ad effettuare la sua realizzazione in generale. La molteplicità è l’objetto; ma non vi è nulla che impedisca agli atomi vicini di correre subito verso un’unità assoluta fra loro — grazie alla loro tendenza ora appagabile — prima dell’adempimento di ciascun scopo prefisso nella molteplicità; e non vi è nulla che impedisca l’aggregazione di diverse masse uniche in diversi punti dello spazio — in altre parole, niente die impedisca l’accumulazione di diverse masse, ciascuna delle quali forma un’Unità assoluta.