Eureka/Eureka/III.

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III.

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Edgar Allan Poe - Eureka (1848)
Traduzione dall'inglese di Maria Pastore Mucchi (1902)
III.
Eureka - II. Eureka - IV.
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III.


Questa tesi ammette una scelta fra due modi di discussione: — Noi possiamo ascendere o discendere. Cominciando dal nostro punto di vista, dalla Terra in cui noi siamo, possiamo passare agli altri pianeti del nostro sistema, di là al Sole, quindi al nostro sistema considerato collettivamente e poi attraverso ad altri sistemi, indefinitamente esterni; oppure, cominciando dall’alto ad un certo punto tanto definito quanto ce lo possiamo raffigurare o concepire, noi possiamo discendere all’abitazione dell’Uomo. Usualmente, cioè nei saggi più comuni Sull’Astronomia, si è adottato, con qualche riserva, il primo di questi due metodi: e ciò per la evidente ragione che i fatti astronomici ed i principi essendo l’unico nostro scopo, esso viene raggiunto meglio salendo gradatamente dal conosciuto, perchè è più prossimo, verso il punto in cui tutta le certezze si perdono nel remoto. Per il mio scopo presente, tuttavia, che è quello di dare alla mente il modo di capire anche da lontano e con un solo sguardo una concezione generale dell’Universo individuale — è chiaro che discendere dal grande al piccolo, dal centro (se noi potessimo stabilire un centro) alla periferia, dal principio (se noi potessimo imaginare un principio) alla fine, sarebbe il metodo preferibile, se non fosse per la difficoltà, per non dire impossibilità, di presentare sotto questa forma, a chi non è astronomo, una pittura veramente comprensibile riguardo a quelle considerazioni che sono implicate nell’idea: quantità, cioè, relativamente al numero, alla grandezza ed alla distanza.

Ora, la chiarezza, l’intangibilità — in ogni punto — è il carattere essenziale del mio piano generale. Negli argomenti importanti è meglio essere troppo prolissi che troppo oscuri. L’astrusità è una qualità che per sè stessa non è inerente a nessun soggetto. Tutte le cose sono ugualmente facili da comprendere, per colui il quale si avvicina ad esse gradatamente. È solo perchè qua e là si è lasciato negligentemente mancare qualche pietra del marciapiedi della nostra via al Calcolo Differenziale, che quest’ultimo non è una cosa tanto semplice quanto un sonetto di Mr. Salomone Seesaw.

Per evitare qualunque probabilità di malinteso, io credo che sia conveniente di procedere, come se anche i più semplici fatti dell’Astronomia fossero sconosciuti al lettore. Combinando i due metodi di discussione, che ho già riferito, io mi propongo di servirmi dei vantaggi particolari dell’uno e dell’altro — e più specialmente della ripetizione [p. 22 modifica]nei particolari che sarà una conseguenza inevitabile del piano. Comincierò con una discesa, e per risalire mi riservo quelle considerazioni di quantità indispensabili alle quali ho già fatto allusione.

Cominciamo, dunque, subito colle più semplici delle parole: «Infinito.» Questa espressione, come quelle altre: «Dio», «Spirito», ed alcune altre ancora i cui equivalenti esistono in tutte le lingue, non è certamente l’espressione di un’idea, ma uno sforzo per arrivare ad un’idea. Essa rappresenta un tentativo possibile per arrivare ad una concezione impossibile. L’uomo aveva bisogno di un termine per indicare la direzione di questo tentativo — la nube dietro cui sta. per sempre invisibile, l’objetto di questo tentativo. Infine si domandò una parola per mezzo della quale un essere umano potesse mettersi prontamente in relazione con un altro essere umano, con una certa tendenza dell’intelletto umano. Da questa domanda ebbe origine la parola: «Infinito», che non rappresentò così altro che il pensiero di un pensiero.

Per quanto riguarda quell’infinito, or ora considerato — l’infinito di spazio — noi abbiamo sentito dire soventi che «la sua idea è ammessa dalla mente — si accorda con essa — ne è accolta — riguardo alla maggiore difficoltà che è inerente alla concezione di un limite». Ma questa è semplicemente una di quelle frasi colle quali anche i più profondi pensatori, da tempo immemorabile, si compiacquero d’ingannar sè stessi di quando in quando. L’inganno sta nascosto nella parola «difficoltà». «La mente», ci dicono, «concepisce l’idea dello spazio senza limiti a cagione della maggiore difficoltà che trova nel concepire l’idea dello spazio limitato». Ora, se la proposizione fosse posta imparzialmente, la sua assurdità diverrebbe subito evidente. Realmente, in questo caso non vi è nessuna difficoltà per quanto semplice. L’asserzione proposta se viene presentata secondo la sua intenzione, senza sofisticherie, sarebbe espressa cosi: — «La mente ammette l’idea dello spazio illimitato a cagione della maggiore impossibilità di concepire l’idea dello spazio limitato»

Si vedrà che qui non si tratta di due rapporti, sulle cui rispettive probabilità — o di due argomenti, sulle cui rispettive validità — la ragione sia chiamata a decidere — si tratta di due concezioni direttamente in conflitto, entrambe manifestamente impossibili, una delle quali può essere concepita dall’intelletto a cagione della maggiore impossibilità di concepire l’altra. La scelta non è fatta fra due difficoltà; si suppone che sia fatta semplicemente fra due impossibilità. Ora la prima ammette dei gradi, ma l’ultima nessuno, appunto come ha già detto il nostro impertinente autore della lettera. Un dovere può essere più o meno difficile, ma [p. 23 modifica]non può essere che possibile o impossibile — non vi sono gradazioni. Potrebbe essere più difficile capovolgere le Ande che un formicajo; ma non può essere più impossibile annientare cosi la materia dell’uno come la materia dell’altro. Un uomo può saltare dieci piedi con minor difficoltà che saltarne venti; l’impossibilità di fare un salto fino alla luna non è certamente minore dell’impossibilità di fare un salto fino alla stella Sirio.

Poiché tutto ciò è innegabile; poiché lo spirito non può scegliere che fra diverse impossibilità di concezione; poiché una impossibilità non può essere maggiore di un’altra, e non può essere preferita ad un’altra, i filosofi — i quali non sostengono soltanto l’umana idea dell’infinito, basandosi sulle ragioni già citate, ma riguardo a questa ipotetica idea sostengono anche l’infinito stesso — s’impegnano evidentemente a dimostrare che una cosa impossibile è possibile, dimostrando come sia pure impossibile un’altra cosa. Ciò sarà chiamato un nonsenso e forse lo è; veramente io credo che sia un nonsenso straordinario, ma però rinuncio a reclamarlo come mio.

La più pronta maniera, tuttavia, di spiegare la falsità degli argomenti filosofici in questa materia, è semplicemente di osservare un fatto che la riguarda e che è stato finora completamente disprezzato — il fatto, cioè, che l’argomento di cui abbiamo parlato prova e confuta entrambe le sue proposizioni. «La mente è spinta», dicono i teologi ed altri, «ad ammettere una Prima Causa, per la maggiore difficoltà che prova a concepire cause sopra cause’senza fine». L’arguzia, come prima, sta nella parola «difficoltà», ma qui a che cosa è impiegata? A sostenere una Prima Causa. E che cosa è una Prima Causa? Il limite estremo di tutte le cause. E che cosa è il limite estremo di tutte le cause? La Fine — il Finito. Cosi si è impiegata, da Dio sa quanti filosofi. la stessa arguzia in due procedimenti, per sostenere ora il Finito ed ora l’Infinito; non potrebbe dunque servire a sostenere qualcosa di più? Quanto alle arguzie, esse, almeno, sono insopportabili. Ma, per lasciarle, diremo che ciò che provano in un caso è identico a ciò che dimostrano nell’altro, vale a dire nulla.

Naturalmente nessuno supporrà che io combatta qui per la impossibilità assoluta di ciò che noi tentiamo di comunicare colla parola «Infinito». Il mio unico scopo è quello di dimostrare quale follia sia il tentare di provare l’Infinito stesso, oppure la nostra concezione di esso, per mezzo di quegli sbagliati ragionamenti che ordinariamente si usano.

Ciononostante, individualmente, mi sarà permesso di dire che non posso concepire l’Infinito e sono convinto che nessun essere umano lo può. Una mente non interamente cosciente, non abituata all’analisi interiore delle sue proprie [p. 24 modifica]operazioni ingannerá, è vero, spesso sè stessa credendo di avere afferralo la concezione di cui noi parliamo. Nello sforzo per afferrarla noi procediamo passo passo; noi imaginiamo punto per punto; e finché noi continuiamo lo sforzo, si può dire che realmente noi tendiamo alla formazione dell’ idea designata, mentre la forza dell’impressione, che realmente prende forma in noi o 1’ ha già presa, è proporzionale al periodo di tempo durante il quale noi sosteniamo questo sforzo mentale. Ma è nell’atto in cui si tralascia l’impresa — di realizzare (come noi crediamo) l’idea — di dare l’ultimo colpo (come noi supponiamo) alla nostra concezione — che noi abbattiamo ad un tratto l’intera costruzione della nostra mente, per riposare così sopra qualche ultimo punto e per conseguenza definito. Tuttavia, se noi percepiamo questo fatto, è a cagione dell’assoluta coincidenza di tempo fra l’ultimo sforzo e l'atto del cessare di pensare. Tentando d’altra parte di formarci un'idea di uno spazio limitato, noi capovolgiamo semplicemente i procedimenti che implicano l’impossibilità.

Noi crediamo in un Dio. Noi possiamo o non possiamo credere uno spazio finito o infinito, ma la nostra credenza in tali casi si può propriamente designare come fede, ed è una cosa affatto distinta da quella credenza particolare — da quell’intellettuale credenza — che presuppone la concezione mentale.

Il fatto è che, nell’enunciazione di ciascuna di quelle classi di termini a cui appartiene il termine « Infinito » — la classe che rappresenta i pensieri di pensiero — colui che ha il diritto di dire che pensa veramente, non si sente obbligato ad accettare una concezione, ma semplicemente a dirigere la sua visione mentale verso un dato punto del firmamento dell’intelletto, dove sta una nebulosa che non sarà mai sciolta. Veramente, egli non fa nessun tentativo per scioglierla, perché con un rapido istinto comprende, non solo l’impossibilità, ma per quanto riguarda tutti i propositi umani, l'inessenzialità della sua soluzione. Egli percepisce che la Divinità non ha segnato questo mistero per essere risolto. Egli vede subito che questa soluzione è superiore al cervello dell’uomo ; e vede pure come, se non esattamente perchè, essa sia superiore. Vi sono delle persone, io ne conosco, le quali occupandosi in tentativi verso l’insostenibile, acquistano molto facilmente, grazie al gergo che parlano, fra quei pseudo-pensatori, pei quali oscurità e profondità sono sinonimi, acquistano, per la loro profondità, una specie di reputazione come quella dei pesci calamai; ma la più bella qualità del Pensiero è la conoscenza interiore di esso; e, senza sbagliare di molto, si può dire che non vi è una nebbia mentale maggiore di quella che, estendendosi fino ai confini del dominio intellettuale rav[p. 25 modifica]

volge anche quegli stessi confini sottraendoli all’intelligenza.

Si comprenderà ora che usando la frase «Infinito di Spazio» io non voglio obbligare il lettore ad accettare la concezione impossibile di un infinito assoluto. Io intendo di parlare semplicemente della «massima estensione di spazio concepibile» di un dominio fluttuante, pieno d’ombre, ora ristretto ed ora rigonfio secondo le vacillanti energie dell’imaginazione.

Finora l’Universo delle stelle è stato sempre considerato come coincidente coll’Universo propriamente detto, come l’ho definito al cominciare di questo Discorso. Si è sempre ammesso o direttamente o indirettamente — fin dall’aurora dell’Astronomia intelligibile, per lo meno — che, se per noi fosse possibile di raggiungere un dato punto qualsiasi dello spazio, troveremmo sempre intorno a noi una interminabile successione di stelle. Questa fu l’idea insostenibile di Pascal quando stava forse facendo il più fortunato tentativo che mai sia stato fatto, cioè di perifrasare la concezione per cui noi ci dibattiamo nella parola «Universo».

«È una sfera», egli diceva, «il cui centro è in ogni luogo e la cui circonferenza in nessun luogo». Ma sebbene questa definizione intenzionale non sia realmente una definizione dell’Universo stellare, noi la possiamo però accettare, con qualche riserva mentale, come una definizione (abbastanza rigorosa per ogni utilità pratica) dell’Universo propriamente detto, cioè dell’Universo di spazio. Consideriamo dunque quest’ultimo come «una sfera il cui centro è in ogni luogo e la cui circonferenza in nessun luogo». Infatti, mentre per noi è impossibile imaginare un fine allo spazio, non abbiamo nessuna difficoltà a imaginare un principio fra un’infinita quantità di principî.