Etica/Libro Quarto/VI

VI. - La vita secondo ragione

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Baruch Spinoza - Etica (1677)
Traduzione dal latino di Piero Martinetti (1928)
VI. - La vita secondo ragione
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VI. — La vita secondo ragione.


1) Nelle prop. 59-73 Spinoza tratta della condotta umana in quanto è già determinata dal conoscere vero, cioè dalla ragione: che in quanto domina le passioni è pur essa una disposizione affettiva, ma non una passione nel verone proprio senso.

Prop. 59. A tutte le azioni a cui siamo determinati dal sentimento come passione, possiamo esser determinati, senza di esso, dalla ragione.

Con la prop. 59 Spinoza premette che il dominio della ragione non è qualche cosa che deprima, diminuisca l’attività e la potenza degli uomini: tutto quello che vi è di positivo nella loro attività, quando è diretta dalla passione, può essere anche prodotto, e in modo assai più perfetto, dalla ragione. Per es., il saggio fa con serenità, per un senso di estensione dell’essere proprio e così di potenza e di gioia, quello che il pietoso fa, dolorando, per un atto appassionato: che anzi il saggio lo farà meglio e più sicuramente. Il passaggio alla vita della ragione non è quindi una limitazione od una diminuzione, ma anzi un accrescimento di attività e di potenza.

Bisogna notare che per lo stesso desiderio l’uomo può tanto agire quanto patire. Per es., quando mostrammo la natura umana essere tale, che ciascuno desideri gli altri vivano secondo il piacer suo, abbiamo veduto che questo desiderio nell’uomo non guidato da ragione è una passione che è detta ambizione e non è molto lontana dalla superbia; laddove nell’uomo, che vive secondo ragione, è un’azione, una virtù che è detta carità [p. 121 modifica](pietas). Così è di tutti i desideri, che possono essere, passioni, in quanto originano da idee inadequate, e sono invece virtù quando sono eccitate o generate da idee adequate. Perchè tutti i desideri, dai quali siamo mossi a far qualche cosa, possono sorgere tanto da idee adequate quanto da idee inadequate. (Et., V, 4, scol.).

La passione procede da una visione mutila e confusa: la ragione dà un’intelligenza: delle cose nella loro totalità. Pertanto ciò che caratterizza la passione è l’unilateralità: noi sacrifichiamo il bene di tutto l’essere nostro al bene d’una parte, il bene del futuro al bene del momento, ecc. (prop. 60). Invece il desiderio in cui si traduce la ragione è una totalità equilibrata, che si estende egualmente a tutto l’uomo ed a tutta la sua vita. La vita razionale unifica ed armonizza l’individuo nell’unità infinita, quindi è l’espressione, nell’individuo, della vita immutabile e concorde del tutto, nella quale non si possono pensare nè opposizione, nè sproporzioni (prop. 61). La passione si immerge nel presente: la ragione invece, che vede le cose sotto l’aspetto eterno, neglige le distinzioni di tempo e tiene conto ugualmente delle cose passate e future come delle presenti (prop. 62).

2) Nelle prop. 63-68 Spinoza mette in rilievo il carattere positivo, ottimistico, eroico, della sua morale di fronte al male. Il progresso verso la perfezione è un progresso nell’attività, nella potenza e perciò nella gioia: esso è quindi un’eliminazione progressiva del male, che per il saggio non deve più esistere. La visione delle cose, per opera della ragione, si trasforma, di grado in grado, nella visione dell’ordine eterno, dove tutto è unità, attività e beatitudine immutabile.

Prop. 63. Chi è guidato dalla paura e fa il bene per evitare il male non è guidato dalla ragione.

Il desiderio razionale mira direttamente all’accrescimento dell’attività, della gioia, del bene e non si [p. 122 modifica]occupa del male: il saggio evita il male soltanto indi­rettamente in quanto cerca il bene. In Dio non vi è male: quindi il male è qualche cosa che deve dissiparsi e scomparire di mano in mano che l’anima si eleva verso la sua unità con Dio. Perciò porre il timore del male come condizione del bene è invece un introdurre in noi il male come realtà positiva, un assoggettare stabilmente l’anima alla speranza, alla paura ed a tutte le passioni dolorose della vita inferiore. Questa propo­sizione è evidentemente diretta contro la religiosità volgare.

Gli uomini superstiziosi, che sanno flagellare i vizi piuttosto che insegnare le virtù e che si studiano non di condurre gli uomini con la ragione, ma di contenerli con la paura, affinchè fuggano il male, anzichè amare la virtù, non mirano che a fare degli altri degli esseri miserabili come loro: onde non è mera­viglia che siano il più delle volte molesti e odiosi agli uomini. (Et., IV).

Prop. 64. La conoscenza del male è una conoscenza inadequata.

Il male sta unicamente nella nostra conoscenza del male, cioè nella nostra conoscenza inadequata della realtà: nella conoscenza adequata, nella conoscenza di Dio e delle cose in Dio non vi è più posto per il male. Quindi finchè vi è per noi qualche cosa che non deve essere, ciò vuol dire che non abbiamo ancora una conoscenza in gran parte adequata: perchè il saggio non deve più conoscere il male. Di qui le regole che ci dà più innanzi Spinoza, di considerare nelle cose il bene, non il male.

L’uomo forte deve in primo luogo considerare che tutte le cose procedono dalla necessità della natura divina e che quindi tutto ciò che egli pensa come molesto e cattivo, anzi come empio, orrendo, ingiusto e turpe nasce da ciò che egli vede le cose in modo turbato, mutilo e confuso: eppertanto in primo luogo egli si sforzerà di vedere le cose come sono in sè, di rimuovere gli impedimenti della vera conoscenza come l’odio, l’ira, l’invidia, [p. 123 modifica]la derisione, la superbia e le altre passioni sopra descritte e così di fare, per quanto può, il dovere suo con gioia (bene agere et lætari). (Et., IV, 73, scol.).

Bisogna notare che nell’ordinare i nostri pensieri e le nostre rappresentazioni bisogna sempre mirare a quello che vi è in ogni cosa di bene, affine di essere sempre determinati all’agire della gioia. Per es., se alcuno vede di essere troppo attratto dal desiderio di fama, pensi al suo retto uso, al suo giusto fine, ai mezzi con cui deve essere cercata; ma non al suo abuso, alla sua vanità, all’incostanza degli uomini e cose simili, che sono pensieri da ipocondriaci. Infatti sono gli ambiziosi che più si affliggono con tali pensieri, quando disperano di raggiungere gli onori a cui mirano; e mentre vomitano ira, vogliono parere dei saggi. Onde è certo che quelli, i quali più gridano contro l’abuso della fama e la vanità del mondo, sono quelli che della fama sono più cupidi. Nè questo è proprio degli ambiziosi, ma vale per tutti quelli che hanno la fortuna contraria e l’animo debole. Perchè anche l’avaro povero non cessa di parlare del­l’abuso delle ricchezze e dei vizi dei ricchi: col che non fa altro se non affliggersi e mostrare agli altri che non sa sopportare nè la povertà sua, nè le ricchezze degli altri. Così quelli che sono stati respinti dalla donna amata non pensano che all’in­costanza delle donne, alla loro perfidia e agli altri vizi loro così spesso decantati: ma per dimenticarsene subito appena sono tornati in favore dell’amata. Colui pertanto che si studia di temperare le sue passioni e i suoi desiderî pel solo amore della libertà si sforzerà per quanto può di conoscere le virtù e le loro cause e di riempire l’animo di quella gioia che viene dalla conoscenza del vero: e non di meditare sui vizi degli uomini, di flagellarli e di godere d’una falsa forma di libertà. (Et., V, 10, scol.).

Perciò il saggio considererà il male minore, che evita un male maggiore, come un bene: e viceversa il bene minore che ci priva d’un bene maggiore come un male (prop. 65). Egli avrà sempre il pensiero alla vita e non alla morte: perchè anche la morte per il saggio non può essere una reale negazione della vita: per il saggio non vi è la morte, come non vi è il male. [p. 124 modifica]

Prop. 67. Il saggio a nessuna cosa pensa meno che alla morte: la sua sapienza è una meditazione della vita, non della morte.

Al perfetto, che vive secondo ragione, tutto appare ragionevole e non vi è più male; quindi non vi è più nemmeno bene nel senso umano: esso è veramente «al di là del bene e del male».

Prop 68. Se gli uomini nascessero liberi, non si formerebbero alcun concetto del bene e del male, finchè rimanessero liberi.

Spinoza trova adombrata la sua teoria nel mito biblico. Dio, in quanto mira unicamente a conservare l’uomo nel pieno possesso della sua libertà e della sua ragione gli vieta di mangiare del frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male, cioè gli vieta di conoscere il bene e il male (ciò che può essere solo una conseguenza della decadenza spirituale). La caduta è una caduta nel senso: nella teologia talmudica il serpente (il demonio) è un essere sensuale, dalla cui unione con Eva nasce Caino. Adamo cede all’esempio della sensualità. Il redentore è l’idea innata di Dio che è in ciascuno di noi.

Questo e il restante che abbiamo dimostrato sembra essere stato adombrato da Mosè nella storia del primo uomo. In essa non si parla di altra potenza di Dio, se non di quella per cui creò l’uomo, cioè della potenza per cui provvedette unicamente all’utilità dell’uomo: e in tal senso si narra che Dio vietò all’uomo libero di mangiare dell’albero della conoscenza del bene e del male, perchè, appena ne avesse mangiato, avrebbe cominciato a temere la morte anzichè desiderare di vivere. Inoltre che l’uomo, avendo trovato una compagna che s’accordava con la sua natura, riconobbe non esservi nella natura nulla che potesse essergli più utile; ma che, dopo che credette gli animali simili a sè, tosto cominciò ad imitarne le passioni e perdette così la sua libertà: che poi ricuperarono i patriarchi, guidati dallo spirito dì Cristo, cioè dall’idea di Dio, che sola fa l’uomo [p. 125 modifica]libero e fa sì che egli desideri anche per gli altri uomini il bene che desidera per sè. (Et., IV, 68, scol).

La prima cosa che ci viene dinanzi è la storia del primo uomo, dove si narra che Dio impose ad Adamo di non mangiare del frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male: il che sembra significare che Dio impose ad Adamo di fare e cercare il bene come bene e non in quanto è contrario al male, cioè di cercare il bene per amore del bene e non per timore del male; perchè chi fa il bene per vera conoscenza ed amore del bene, agisce con animo libero e sicuro, mentre chi lo fa per timore del male, agisce costretto dal male con animo servile e vive sotto l’imperio di altri. (Trattato teol. pol., cap. IV).

3) Nelle prop. 69-73 Spinoza aggiunge alcuni caratteri relativi alla vita sociale del saggio. Il saggio deve ricordarsi che vive tra esseri stolti e brutali: quindi unirà il coraggio alla prudenza (prop. 69). Eviterà di legarsi troppo strettamente ai volgari e di riceverne i benefizi per non doverne poi seguire le inclinazioni (prop. 70). Tanto più liberamente ed affettuosamente si legherà coi pari suoi (prop. 71): ma sarà socievole e rispettoso delle leggi (prop. 73); ed userà con tutti la massima lealtà e veracità (prop. 72).

Prop. 70. L’uomo libero, che vive fra ignoranti, cerca, finchè può, di non riceverne benefizi.

Prop. 71. I soli uomini liberi sono fra di loro gratissimi.

Prop. 72. L ’uomo libero non agisce mai con frode, ma sempre con lealtà.

Prop. 73 L ’uomo, guidato dalla ragione, è più libero nello stato, dove vive sotto leggi comuni, che nel deserto dove obbedisce solo a sè.

Sul punto della menzogna Spinoza si mostra altrettanto rigorista quanto Kant: e si serve per condannarla della stessa argomentazione.

Si chiede se l’uomo possa liberarsi con la perfidia da un presente pericolo di morte e se la ragione stessa di conservare l’essere suo non deve persuadervelo. Si risponderà che se la [p. 126 modifica]ragione persuadesse ciò, dovrebbe persuaderlo a tutti gli uomini e cioè dovrebbe in generale persuadere gli uomini per sola perfidia a stringere amicizia, a unir le loro forze e ad avere diritti comuni e così in fondo a non avere diritti comuni, ciò che è assurdo. (Et., IV, 72 scol.).

Spinoza riassume tutti questi caratteri dell’uomo saggio e libero nella fortitudo che è la virtù stessa, in quanto è azione, non passione, e comprende in sè l’animositas (la forza) e la generositas (la socievolezza e la carità) (prop. 73, scol.; si cfr. libro terzo, IV, 5).