Eros (Verga)/XXV
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XXV.
Il marchese non era diplomatico, ma aveva trentaduemila lire di entrata, e il matrimonio fu presto combinato.
— Lo sapevo! esclamò la contessa Armandi con un sorriso mordente, quando le diedero la notizia.
E soggiunse, forse per addolcire o spiegare quell’affermazione singolare:
— Quel giovane ha la bosse del matrimonio.
La sera stessa, mentre stava per andarsene, disse ad Alberto:
— Ve l’avevo detto che avreste finito per sposarla voi. Siete fatti l’uno per l’altra.
E gli volse le spalle. Partendo non si accorse del saluto di lui, e non gli rispose; ad un tratto, tornando indietro, e stendendogli la mano:
— A proposito, le mie felicitazioni! gli disse.
Velleda amava moltissimo il suo fidanzato; ma lo amava com’ella poteva amare, con molta riservatezza, e un po’ freddamente in apparenza. Alberto invidiava a lei l’inalterabile disinvoltura e il dominio di sè stessa. L’elettricità di cui era carica l’anima ardente di lei celavasi sotto un esteriore glaciale, e scoppiettava solamente in qualche lampo degli occhi, o nella reticenza di un sorriso, o in una stretta di mano più lunga del solito, mentre si separavano sull’uscio che metteva nel giardino. Quel pudore di bon ton aveva la sua leggiadria.
La signora Manfredini sembrava la vera amante di Alberti; lo lisciava, lo accarezzava, lo adulava, se lo teneva accanto ai panni, e gli accordava l’onore di offrirle il braccio molto spesso, assai più spesso ch’egli non avrebbe desiderato. Qualcheduno degli amici di casa avea domandato quale delle due Manfredini sposasse il marchese Alberti.
Il matrimonio era stato fissato pel settembre. Le signore Manfredini sarebbero andate in giugno a Livorno, e Alberti dovea andare a raggiungerle, dopo aver fatto una corsa pei suoi poderi, e date le disposizioni per certi restauri che occorrevano ad una villetta sul lago di Como, che lo zio Bartolomeo avea salvato dal naufragio delle sostanze paterne, e nella quale gli sposi dovevano andare a passare l’autunno.
In quel tempo a Firenze non si parlava che di un gran signore romano, giunto di fresco, il quale s’era fatto vedere alle Cascine in un superbo equipaggio. Il principe Don Ferdinando Metelliani era un omiciattolo dieci dodici volte milionario, che troneggiava dai quattro cuscini del suo phaéton come un Apollo brutto. La folla agitavasi al suo passaggio come uno sciame di formiche sorprese dal piede di un villano, lo invidiava, lo ammirava, lo derideva, lo deificava; tutti gli occhi volgevansi verso il suo cocchio lucente; il nome di lui, la sua ricchezza, la sua età, i suoi vizî, correvano sulle bocche di tutti; le più belle e le più schive guardavano con maggior attenzione, che non sogliono accordare ad un semplice mortale, cotesto scimiotto che le fissava insolentemente, e buffava loro in viso il fumo del suo avana, e lo trovavano schicche perchè spingeva i suoi quattro cavalli sulla folla come se si sentisse abbastanza ricco per pagare le ossa che avrebbe rotto. Il principe discendeva da quel patriziato romano che aveva cinque secoli d’esistenza allorquando la più antica nobiltà di Europa arava la terra o serviva nelle sue legioni; era ufficiale nelle Guardie nobili, e cotesto soldato, discendente da una famiglia che aveva condotto alla vittoria parecchie generazioni dei padroni del mondo, s’era rifiutato a battersi in duello; avea quarant’anni, e avea sciupato tutti i godimenti della vita; ascoltava messa tutti i giorni, si comunicava due volte al mese, gettava l’oro sotto le ciabatte delle cortigiane, e avea fatto rinchiudere la sua unica sorella in un monastero per non darle una dote. — Sopra tutto ciò due milioni di scudi.
Il principe Metelliani frequentava la migliore società di Firenze, e avea conosciuto la signora Manfredini all’ambasciata di Napoli; l’altera bellezza di Velleda avea colpito il dissoluto patrizio, e soltanto dinanzi a lei, che non gli volgeva uno sguardo, egli aveva chinato la testa pelata e superba; s’era incaponito con ostinazione da uomo onnipotente a far la corte alla sola donna che non la facesse a lui. Madamigella Manfredini era troppo orgogliosa per accorgersene, e allorchè vide la prima nube sulla fronte di Alberto, ella aggrottò il sopracciglio. — Una volta che il principe s’era mostrato più galante del consueto, ella, con un cenno impercettibile, chiamò il suo fidanzato, che ronzava lì presso, e lo presentò a Don Ferdinando. Quei due uomini si scambiarono un saluto d’antipatia cordiale.
Ma la contessa Manfredini civettava col Metelliani in luogo della figliuola. Allorchè entrava in una sala al braccio di lui, o allorquando poteva presentarlo alle sue amiche, sembrava raggiante, ed era arrivata a chiamarlo semplicemente Don Ferdinando. — Don Ferdinando lasciava fare graziosamente. La figliuola al contrario conservava una serenità olimpica; soltanto allorchè le donne più nobili, più belle, più eleganti, si abbassavano a mendicare l’attenzione di quell’omiciatto, che non sembrava curarsi d’altri all’infuori di lei, le sue rosee narici si gonfiavano appena. Di tanto in tanto era distratta o pensierosa; qualche volta Alberto la sorprendeva fissando su di lui uno strano sguardo, come se Io vedesse per la prima volta, e stesse esaminandolo tacitamente: ella non avea mai voluto dirgliene il perchè, e finiva sempre motteggiandolo.
Gli amici di casa Manfredini avevano combinato una gita a Fiesole, e naturalmente la madre e la figlia erano della partita; siccome Alberti, vivendo ancora da scapolo, non avea che due cavalli, dei quali uno da sella, il principe Metelliani avea messo la sua carrozza a disposizione delle signore Manfredini. Questa circostanza avea fatto nascere un piccolo diverbio con Alberto che era un po’ geloso del principe, senza che volesse confessarlo; ma la contessa avea spiegato nella lotta tutta la sua vanità di mondana, tutta la sua prepotenza di suocera, e avea vinto. Velleda s’era acconciata alla vittoria colla superba indifferenza che le era particolare. Al ritorno da Fiesole la lunga fila delle carrozze, con in testa la sfolgorante dumont delle Manfredini, avea fatto un giro per le Cascine, e allo svoltar del piazzone il principe era venuto loro incontro a cavallo. Allorchè Velleda, distesa mollemente nella superba caléche, volse uno sguardo su quell’immensa piazza affollata, e vide tutti gli occhi fissarsi sui magnifici cavalli, sulle ricche livree di quell’uomo che stava dinanzi a lei col cappello in mano, il seno le si gonfiò con violenza.
Alberti ebbe il torto di congedarsi un po’ bruscamente quella sera. Velleda gli aveva detto, più freddamente del solito:
— Avete un carattere singolare davvero!
Quand’egli si allontanò l’accompagnò con uno sguardo carico di pensieri; poi alzò leggermente le spalle.
Il domani stavano per uscire in carrozza — carrozza da rimessa — e vedendo il suo fidanzato ancora imbroncito Velleda gli disse ridendo, mentre si abbottonava il guanto:
— Orsù!.... Sareste capace d’ingelosirvi del Metelliani?
— No! rispose Alberto con un po’ di superbietta appunto da geloso.
— Alla buon’ora! diss’ella — ma non rise più.