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Velleda amava moltissimo il suo fidanzato; ma lo amava com’ella poteva amare, con molta riservatezza, e un po’ freddamente in apparenza. Alberto invidiava a lei l’inalterabile disinvoltura e il dominio di sè stessa. L’elettricità di cui era carica l’anima ardente di lei celavasi sotto un esteriore glaciale, e scoppiettava solamente in qualche lampo degli occhi, o nella reticenza di un sorriso, o in una stretta di mano più lunga del solito, mentre si separavano sull’uscio che metteva nel giardino. Quel pudore di bon ton aveva la sua leggiadria.
La signora Manfredini sembrava la vera amante di Alberti; lo lisciava, lo accarezzava, lo adulava, se lo teneva accanto ai panni, e gli accordava l’onore di offrirle il braccio molto spesso, assai più spesso ch’egli non avrebbe desiderato. Qualcheduno degli amici di casa avea domandato quale delle due Manfredini sposasse il marchese Alberti.
Il matrimonio era stato fissato pel settembre. Le signore Manfredini sarebbero andate in giugno a Livorno, e Alberti dovea andare a raggiungerle, dopo aver fatto una corsa pei suoi poderi, e date le disposizioni per certi restauri che occorrevano ad una villetta sul lago di Como, che lo zio Bartolomeo avea salvato dal naufragio delle sostanze paterne, e nella quale gli sposi dovevano andare a passare l’autunno.
In quel tempo a Firenze non si parlava che di un gran signore romano, giunto di fresco, il quale s’era fatto vedere alle Cascine in un superbo equipaggio. Il