Cap. XVIII

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XVII XIX
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XVIII.


I contadini dei dintorni udirono abbaiare i cani tutta notte come se una bestia feroce avesse scorazzato per quei monti. Alberto rientrò verso il mezzogiorno, sotto pretesto d’aver fatto una lunga passeggiata mattinale, stanco, trafelato, febbricitante. Alla villa trovò tutto sossopra: i domestici andavano e venivano in furia, la carrozza era dinanzi alla porta coi cavalli ancora fumanti di sudore; lo zio Bartolomeo era ritornato allora allora in compagnia del medico; durante la notte Adele era stata assalita da un accesso di febbre violentissimo. A quella notizia le gambe si piegarono sotto ad Alberto.

Trovò lo zio sull’uscio della camera di lei.

— Dove sei stato? gli domandò.

Ei balbettò delle bugie, al par di un colpevole. Lo zio era così turbato da non accorgersi del turbamento del nipote. [p. 96 modifica]

— La povera Adelina sta male, sai! gli disse. Non si sa che diavolo abbia; anche il dottore ci ha perso il latino. Entra pure. Adele, c’è qui Alberto!

Il giovane incontrò gli occhi di Adele, ardenti come carboni, che lo fissavano senza dir motto; tutti i muscoli del viso di lei sembrarono decomporsi. Il dottore stava a capo del letto, e teneva fra le dita il polso dell’inferma; ei volse al sopravvenuto uno sguardo che sembrava scrutatore.

— Chi è quel signore? domandò il medico al signor Forlani sottovoce.

— Mio nipote Alberto, il fidanzato della mia figliuola.

— È strano! borbottò l’altro. M’era parso di sentir trasalire il polso.

E si mise nuovamente a guardare in viso l’inferma che stava immobile, cogli occhi fissi, le guance accese, le manine che stringevano di quando in quando convulsivamente la rimboccatura della coperta, e le labbra agitate da un tremito nervoso.

La camera era quasi al buio; si udiva solo il tic-tac dell’orologio ed il cinguettio degli uccelli sul davanzale della finestra.

— Avevamo passato tranquillamente la sera in casa, diceva il signor Forlani a mo’ d’informazione; la mia bambina era sana e allegra come sempre: ella non ha chiamato una sola volta in tutta la notte; la Gegia, che dorme vicino alla sua camera, non l’udì muoversi, nè fiatare; stamane poi me la trova in quello stato, e colla finestra spalancata, per il gran vento di stanotte, [p. 97 modifica]o perchè l’abbia aperta ella stessa, senza ricordarsene poi, sentendosi soffocare dal sangue che le montava al capo. Dalle otto a questa parte è stata sempre in quello stato; non parla, non risponde, sembra non abbia conoscenza. La contessina Manfredini, la sua più cara amica, è venuta a dirle addio prima di partire, ed ella non se n’è accorta; anzi, vedendola entrare, è diventata pallida, ha chiuso gli occhi, e allorchè la sua amica volle baciarla fu côlta da un accesso di febbre o di convulsione, si diede a tremare e a rabbrividire che faceva pietà; non ha risposto una sola parola a tutto quello che le diceva la contessina, sembrava non sentisse proprio nulla, e seguitava a stringere convulsivamente la rimboccatura della coperta, come la vede fare adesso; d’allora non ha aperto mai bocca.

Il medico non diceva nulla.

— Guarda, Adele, c’è qui il tuo Alberto! riprese il signor Forlani ad alta voce.

Alberto, spinto da lui, s’accostò al letto. L’inferma lo fissò con quegli occhi spalancati, lucidi e senza sguardo talmente che egli non potè fare a meno di chinare i suoi.

— Stai male, povera Adele? mormorò con voce commossa.

La poverina incominciò a tremare, come fosse côlta dal ribrezzo della febbre, ma non rispose.

— È il tuo Alberto! insistè il babbo.

Ella tremò più forte. [p. 98 modifica]

— Non mi conosci? balbettò il giovane, non sapendo che dire, piegandosi verso di lei.

— È partita!... disse l’Adele con un soffio di voce appena sensibile, e con tale accento che lacerò il cuore di lui.

— Cos’ha detto? domandò il babbo.

— Non ho inteso... rispose Alberto chinando gli occhi dinanzi agli occhi di lei, che lo fissavano sempre.