Era tra mezzo l'alba ed il mattino
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IN LODE DI CANE DELLA SCALA
signor di verona
Era tra mezzo l’alba ed il mattino,
Quando si risvegliò la stanca mente
Per tema d’un serpente
Ch’era su ’l monte dove i’ mi trovai,
5Qual s’adizzava con un fier mastino:
Ond’io lontano e fuor da tutta gente
Con piè dubbio e tremente
Giuso nel pian mi trassi e non passai.
Poscia di fiori in un bel prato entrai;
10E lì sedendo appresso un chiaro fonte,
Con bella ed alta fronte
Giunse come saetta
Tutta soletta una donna correndo,
Cotai parole vêr di me dicendo
15 — Qual se’ tu che sì pronto alla fontana
T’accosti in atto semplice e sinestro?
Per questo loco alpestro
Qual è colui che i tuoi passi consiglia?
Qui non dimora Venus o Dïana;
20Qui non è di delizie ben terrestro:
E chi non è ben destro,
Senza tornar, leggermente periglia,
Ma poï che di te pietà mi piglia,
Vien meco (disse), e porgimi la mano. —
25Ond’io, di mente insano
Per le parole udite,
Timido e mite a pena la man porsi,
Ponendo ’l stato di mia vita in forsi.
Pur nell’andare un argomento presi
30D’affatigar la lingua per mia scusa;
E dissi — O santa musa,
Non donna siete voi ma ninfa o dea.
Fortuna m’ha condotto a ’sti paesi;
Ma per mia voglia venni a questa chiusa,
35Qual non s’adopra od usa,
Al mio parer, per uom di vita rea.
Qui peregrino son di gente Orfea,
Che per un aspro bo ch’urtar mi volle
Montai suso quel colle;
40Dove con l’orme vane
Tema d’un cane e d’un serpe ch’io viddi
M’ha spinto in Scilla per vitar Cariddi. —
Giunti che fummo al terminato loco
Verso man destra a lato a un canticello
45Fresco remoto e bello
Di lauro circondato e di bei faggi,
Ella rispose — Qui a seder un poco
Ambo staremo, caro mio fratello.
È ben che giovancello
50Ed inesperto sì gran fatti assaggi.
Io son la madre di que’ santi raggi
Che vedi in terra qui dal sonno presi;
Tanto dal mondo offesi
Per le corrotte genti.
55Che sonnolenti stanno a questa guisa,
Come per campo fa gente derisa.
E colei che non dorme è mia sorella,
Sotto cui guardia stan libere e tute
Queste mie figlie mute,
60Che son dal mondo, misere!, sbandite. —
Io che conobbi l’una e l’altra stella,
Sollicitudo madre di Virtute,
Ed alla soda cute
Costanza bella che vince ogni lite;
65Subito dentro al cor mi dièr ferite
D’un dolce zel, commosso di pietate,
Per quelle sconsolate,
Raminghe, peregrine
Virtù tapine, vedove, orfanelle,
70Cacciate fuor delle mondane celle.
Poi reverente, non com’io dovea
Ma quanto allor il mio poter si stese,
Genuflesso e cortese
L’indegna bocca porsi a’ sacri piedi.
75Ambo, per loro immensa cortesìa,
Levôrmi: e l’una per la man mi prese
Dicendo — In tuo paese
Vogliam noi, figliuol mio, che salvo riedi. —
E così seco a ragionar mi diedi
80Contento più di nullo uomo beato;
Tal che, se fuor del prato
Credesse esser uscito
Ed esaudito fosse il mio desire,
Allora avrei provato un bel morire.
85 Ma prossimando alla bella fontana
Ch’avea mia vita posto alla bilanza,
Senza nulla speranza
Di provar mai l’inopinato bene;
E ’l can del monte vidi uscir di tana;
90Per cui ridendo mi guardò Costanza
Dicendo — Ora t’avanza
Terreno e tempo col mastin che vène.
Séguita l’orme e fa’ la via ch’el tene;
E perchè tal’or urli e tal’or gema,
95Non aver di lui tema.
Guardagli dritto in faccia;
Chè la sua traccia bella e vista scorta
Fia l’ultimo sperar che ne conforta. —
Però, canzone, allegra va’ per tutto,
100In ciascun porto le tue vele cala,
E di Virtute ogni figlio saluta;
Ch’ella non è perduta
Ancor. T’affretta, e va’ sbattendo l’ala;
Chè del Can della Scala è nato un frutto
105Sì dolce e cordïale,
Ch’ogni veneno e male,
Dove costui s’appressa, star non ponno,
Ed ha già tolto alle virtuti il sonno.
(Da Rime di Franc. di Vannozzo tratte da un cod. ined. del secolo XIV, per N. Tommasèo; Padova, Tipogr. del Seminario, 1825.)