Elegie romane/IV/Nella certosa di San Martino
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NELLA CERTOSA DI SAN MARTINO
(IN NAPOLI)
Vita, negli occhi miei, negli occhi di quella che a fianco
2m’era e credea sé tutta cinta de’ miei pensieri,
sé nel mio sogno, ed ebri ancora i miei sensi, e la mia
4anima con intatti vincoli trarre seco;
negli occhi nostri, o Vita, le imagini tue dileguando
6come serenamente fluttuavano!
Eran su l’alte mura i tralci (pendevano i neri
8grappoli da la canna come da un tirso d’oro)
e pe’ leggeri intrichi pampinei l’isole e i golfi
10s’intravedeano splendere: Puteoli
cerula su ’l lunato azzurro, ove l’Ibi migrante
12agile tra le corna scese de’ bianchì buoi,
Baja voluttuosa, e il tumulo ingente che Enea
14diede a Miseno, e l’alta Cuma che udì gli ambigui
carmi fatali, e il lido lacustre che l’orme sostenne
16d’Ercole dietro il gregge pingue di Gerione:
plaghe da gli Immortali dilette, ove (come in profondi
18talami cui piacciansi premere amanti umani)
gli incliti corpi ambrosii giacendo lasciarono impronte
20sacre, vestigi eterni de la Bellezza prima.
Quella che al fianco m’era — Non senti — mi disse — la nostra
22felicità salire? Tutte le cose belle
credo io aver nel cuore. — Mi disse languendo la donna
24tenera. Ne la bocca le rifioríano i baci.
Io che provai? Mi stava su ’l cuore un affanno ignorato.
26Tutto pareami quivi solitudine,
vacuità, tristezza, immobile tedio, nel muto
28lume, sotto i muti chiari lontani cieli.
Poi, ne le vaste sale deserte, vedemmo le inani
30spoglie dei re, le vesti, l’armi, i vessilli, i cocchi
d’oro, il vascel vermiglio che tenne le pompe del terzo
32Carlo; e il tuo cupo rombo parvemi udire, o Fato.
Parvemi; ma più forte salìa verso l’ardua loggia,
34ove tremammo, il rombo de la città che tutta
quanta ferveva al sole, tutta quanta aperta in un riso,
36in un possente riso inestinguibile,
illuminando i cieli che in lei tendevano l’arco,
38avida con rosee braccia abbracciando il mare.
Mise la donna un grido, stringendosi a me, con un lungo
40brivido, come presa di vertigine.
Poi, reclinata il volto bianchissimo, parvemi in atto
42di voluttà profonda bere la dolce luce.
— Oh, tutti i sogni miei per questo! — dicea lenta, quasi
44ebra. — Infinito e pure intimo ne l’anima
come un divin segreto da te rivelato a me sola! —
46Tacque; ed ancor la bocca parve bevesse luce.
Io che provai? Mi stava su’ l cuore un affanno ignorato.
48L’anima ansando attese il rapimento in vano.
Pur intendea confuse parole — Quale ombra ti copre?
50Quale altro oscuro mondo occupa gli occhi tuoi?
Quello che in te contempli ha forse orizzonti più vasti?
52Dentro, più lieti s’aprono spettacoli?
Tu possederlo credi! Non è in tal possesso la gioja.
54Meglio è nel Tutto l’anima disperdere.
Rompi il tuo cerchio al fine! Guardando la donna che t’ama,
56lascia il supremo sogno al cielo effondersi! —
— Non uscirà già mai da me — io pensava — il mio sogno,
58poi che non basta il cielo, poi che non basta il mondo
a contenerlo: vince d’altezza ogni cosa creata.
60Pur questa immensa forza non mi riempie il cuore! —
E, reclinando il capo, non altro sentii che l’interna
62vacuità fra il rombo de la tua fuga, o Vita.
Sotto raggiava il mare pacato nel fervido amplesso;
64e la Montagna in contro, armoniosa al giorno
quale una forma escita di mano d’artefice puro,
66con incessante palpito da l’igneo
grembo esprimea ne l’aria le sue multiformi chimere
68che lente il cielo sommo conquistavano.
Come divino allora mi parve il silenzio del chiostro
70ove scendemmo. E un’Ombra muta scendea con noi.
Alto quadrato eretto su belle colonne polite:
72era il tuo, Morte, candido vestibolo.