El libro dell'amore/Oratione VI/Capitolo X

Oratione VI - Capitolo X

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Quali dote abbino gli amanti dal padre dell’Amore.

Queste cose seguitano della povertà, che è madre dell’Amore; ma della copia, che è padre d’Amore, seguitano cose contrarie alle sopraddecte. E quali sieno le contrarie ciascuno conoscerà intese le cose superiori, perché egli è descripto disopra così: semplice, trascurato, vile, sanza arme, e qui si pongono e contrarii di questi così dicendo: uccellatore, sagace, machinatore, inventore d’agguati, studioso di prudenza, philosopho, virile, audace, vehemente, facundo, mago, sophista. Imperò che el medesimo Amore, el quale nell’altre faccende fa lo innamorato trascurato e da poco, lo fa nelle cose amatorie astuto e industrioso, sì che con maravigliosi modi va uccellando la gratia dello amato, implicandolo con inganni, abbagliandolo con servigi, placandolo con eloquentia, addolcendolo col canto. E ’l medesimo furore che fece lo innamorato lusinghiere ne’ servigi, gli subministra di poi l’arme, e s’egli si sdegna contro all’amato diventa feroce, e se egli combatte per l’amato non può essere vinto. L’amore, come dicemo, piglia origine dal vedere, e ’l vedere è posto in mezzo tra la mente e il tacto.

Di qui sempre nasce che l’animo dello amante si distrahe e hora in su, hora in giù scambievolmente si gitta, hora surge la cupidità del toccare, hora el desiderio della celeste bellezza, e hora quella, hora questo vince, in modo che in quegli che hanno acuto ingegno, e sono honestamente allevati, vince el desiderio della celestiale pulchritudine; negli altri el più delle volte supera la concupiscentia del tacto. Quegli huomini che si tuffano nella feccia del corpo meritamente si chiamano aridi, nudi, vili, disarmati, da poco: aridi perché sempre hanno fame e mai non s’empiono; nudi perché come temerarii a tutti e pericoli sono subiecti, e come huomini sfacciati caggiono in publica infamia; vili perché non pensano cosa alcuna alta e magnifica; disarmati perché sono vinti dalla scelerata cupidità; da poco perché sono tanto capocchi che non s’aveggono a che termino l’amore gli tira, rimangonsi nel viaggio non giugnendo mai al termino. Ma gli huomini contrarii a questi hanno le conditioni contrarie, imperò che pascendosi eglino delle vere vivande dell’animo s’empiono più e con più tranquilità amano; temono la vergogna, sprezzano la umbratile spetie del corpo, levonsi in alto, e, quasi come armati, scacciano da sé le vane libidine sottomettendo e sensi alla ragione. Costoro come industriosissimi e prudentissimi di tutti in tal modo philosophano, che per le figure de’ corpi quasi come per certe pedate o vero odori con providentia procedono, e sagacemente investigano per questi l’ornamento dell’animo e delle cose divine, e così prudentemente cacciando felicemente pigliano quella preda ch’e’ cercano. Questo tanto dono nasce dalla copia che è padre dello Amore, perché el razzo della bellezza, che è copia e padre d’Amore, ha questa forza, che’e’ si riflecte quivi ond’e’ venne, e riflectendosi tira seco l’amante. Certamente questo razzo, disceso prima da Dio, e poi passando nell’angelo e nell’anima come per materie di vetro, e dall’anima nel corpo, preparato a ricevere tale razzo, facilmente passando, da esso corpo formoso traluce fuori maxime per gli occhi come per transparenti finestre, e subito vola per aria, e penetrando gli occhi dell’uomo che bada ferisce l’anima, accende l’appetito. L’anima ferita e l’appetito acceso induce alla medicina e ’l refrigerio suo, mentre che tira al medesimo luogo seco dal quale lui discese per certi gradi: prima al corpo dello amato, secondo all’anima, tertio all’angelo, quarto a Dio che è prima origine dello splendore predecto. Questa è utile caccia, questa è la felice uccellagione degli amanti, e però nel Protagora di Platone uno familiare di Socrate chiamò Socrate uccellatore dicendo così: «Onde vieni tu, Socrate mio? Io credo però che tu venga da quella uccellagione alla quale l’onesta apparentia d’Alcibiade ti suole invitare». Oltr’a questo si chiama l’Amore sophista e mago; Platone nel dialogo chiamato Sophista definisce sophista essere disputatore borioso e malitioso, el quale con rivolture d’argomentuzzi ci mostra el falso pe ’l vero, e conduce coloro che con lui disputano a sé medesimi contradire.Questo medesimo adviene alle volte agli amanti e agli amati, perché gl’amanti accecati per la nebbia dello amore spesse volte pigliano le cose false per le vere, mentre che egli stimano gli amati essere più begli, acuti e buoni ch’e’ non sono. Ancora contradicono a·lloro medesimi per la violenza dello amore: altro la ragione consiglia, altro la concupiscentia seguita, e spesse volte mutano e loro consigli per lo imperio della persona amata, e repugnano a sé per consentire ad altri. Ancora le persone belle per la astutia degli amanti danno nelle reti, e diventano humane quelle che innanzi furono pertinaci.

Ma perché si chiama l’Amore mago? Perché tutta la forza della magica consiste nello amore: l’opera della magica è uno certo tiramento dell’una cosa dall’altra per similitudine di natura. Le parti di questo mondo, come membri d’uno animale dependendo tutte da uno Auctore, si connectono insieme per comunione di natura, e però come in noi el cervello, polmone, cuore, fegato e gli altri membri traggono l’uno dall’altro qualche cosa, e scambievolmente si favoreggiano, e alla passione dell’uno compatisce l’altro, così e membri di questo grande animale, cioè tutti e corpi del mondo, intra loro concatenati, accattano intra·lloro e prestano loro nature. Per questa comune parentela nasce amore comune, da tale amore nasce el comune tiramento, e questa è la vera magica. Così dalla concavità della spera lunare si tira el fuoco in alto per congruità di natura, dalla concavità del fuoco è tirata similmente l’aria, dal centro del mondo la terra, ancora dal suo luogo l’acqua; di qui la calamita tira el ferro, l’ambra la paglia, el zolfo el fuoco, el sole volge inverso sè fiori e foglie, la luna muove l’acque e Marte e venti, e varie herbe tirano ad sé varie spetie d’animali, così nelle cose humane ciascuno è tirato dal suo piacere. Adunque l’opere della magica sono opere della natura, e l’arte è ministra; perché l’arte, quando s’avede che in qualche parte non è intera convenientia tra le nature, supplisce a questo in tempi debiti per certi vapori, qualità, numeri, figure, così come nell’agricultura la natura parturisce le biade e l’arte aiut’a preparare la materia. Questa arte magica attribuirono gli antichi a’ demoni, perché e demoni intendono qual sia la parentela delle cose naturali intra·lloro, e qual cosa con qual cosa consuoni, e come la concordia delle cose, dove manca, si possa ristorare. Dicesi che alcuni philosophi ebbono amicitia con queste demonia, o per qualche proportione naturale come Zoroastre e Socrate, o per adoratione come Appollonio e Porphirio; e però si dice che essi demoni porgevano a costoro in vigilia segni, voci e cose monstruose, e in sogno revelationi e visioni; sì che pare che costoro sieno divenuti maghi per l’amicitia che ebbono con gli spiriti decti, sì come essi spiriti sono maghi perché conoscono l’amicitia delle cose naturali, e tutta la natura per lo scambievole amore maga si chiama. Oltr’a questo e corpi belli fanno mal d’occhio a chi molto vi bada, e gl’innamorati pigliano con forza di eloquentia e di cantilene le persone amate, quasi come per certi incantesimi, e con servigi e doni gli aescano e occupano quasi come con malie. Per la qual cosa a nessuno è dubio che Cupidine non sia mago, con ciò sia che tutte le forze della magica consista nello amore, e l’opera dello amore s’adempia in un certo modo con mal d’occhio, incantesimi, e malie. «E non è mortale interamente, né anche immortale», l’Amore non è mortale perché quegli due amori in noi che chiamiamo demoni sono in noi perpetui; non è immortale perché e tre amori e quali ponemo in mezzo di que’ due tutto dì si mutano, crescendo e scemando. Aggiugnesi che nello appetito dell’uomo, dal principio della vita, è acceso uno fervore che non si spegne mai: questo non lascia l’animo in sé posare, ma sospignelo sempre ad appiccarsi con vehementia a qualche cosa. Diverse sono le nature degli huomini, onde quel continuo fervore dello appetito, el quale è el naturale amore, induce alcuni alle lettere, alcuni alla musica o alle figure, alcuni a honestà di costumi o a vita religiosa, alcuni agli honori, alcuni ad ragunare danari, molti ad luxuria di gola e di ventre, e altri a altre cose, e ancora el medesimo huomo in diversi tempi di età a·ddiverse cose. Adunque el medesimo fervore si chiama immortale e mortale: immortale perché non si spegne mai e muta materia più tosto ch’e’ si spenga; mortale perché non attende sempre a una cosa medesima, ma cerca nuovi dilecti, o per mutatione di natura o per essere satio di lungo uso d’una cosa medesima, sì che quel fervore che muore in una cosa risuscita in un’altra.

Dicesi ancora immortale per questa cagione, che la figura che una volta è amata sempre s’ama, imperò che quanto tempo una medesima figura persevera in uno medesimo huomo, tanto tempo s’ama in quello medesimo; e quando da·llui è partita, non è più quella la figura in colui la quale tu prima amavi, ma èvene una nuova, la quale nuova tu non ami perché anche imprima non l’amavi, e non cessi però d’amare la prima; ma èvi questa differentia, che prima tu vedevi quella figura antiqua in altri, e hora la vedi in te medesimo, e questa medesima sempre fissa nella memoria ami sempre, e quante volte si rappresenta all’occhio dell’animo tante volte t’accende ad amare.

Di qui nasce che qualunque volta ci si riscontra la persona antiquamente amata ci commoviamo subito, sentendo o tremito nel cuore o liquefactione nel fegato, e alcuna volta battono gli occhi, e ’l volto non altrimenti si veste di varii colori che si faccia l’aria nebulosa, quando, per avere el sole adverso, crea l’arco baleno; imperò che la presenza delle persone amate desta la figura sua che prima dormiva nell’animo dello amante, e offeriscela agli occhi dell’animo, e soffiando raccende el fuoco che sotto la cenere giaceva. Per questa cagione l’Amore si chiama immortale; ma dicesi ancora mortale, perché, benché e dilecti volti stieno sempre nel petto infissi, nondimeno non si offeriscono equalmente agli occhi dell’animo, il perché pare che la benivolentia scambievolmente bolla e intepidisca. Aggiugnesi che l’amor bestiale e anche lo humano non può sanza indignatione mai essere: chi è quello che non si sdegni contro a colui che gli ha rubato l’animo? Quanto è grata la libertà tanto è la servitù molesta, e per questo tu hai in odio le persone belle insieme e amile, ha’le in odio come ladre e micidiali, amile e honorile come specchi in che risplende el celeste lume. O misero, tu non sai quel che ti faccia! Non sai, o huomo perduto, dove ti rivolga! Tu non vorresti essere col tuo omicidiale, e ancora non vorresti vivere sanza la felice presentia; tu non puoi essere con costui che t’uccide, tu non puoi vivere sanza costui che con tante lusinghe ruba te a te e tutto te ad sé usurpa; tu desideri di fuggire costui che con le fiamme sue t’arde, desideri ancora accostarti ad lui, acciò che accostandoti a colui che ti possiede a te medesimo t’accosti. O misero, tu cerchi te fuor di te, e accostiti a colui che ti ruba per ricomperare te qualche volta, che se’ prigione! O stolto, tu non vorresti amare perché tu non vorresti morire, ancora non vorresti non amare perché tu giudichi d’asservire alle imagini delle cose celeste. Per questa altercatione adviene che quasi in qualunque momento l’amore s’appassa e rinverdisce. Oltr’ad questo Diotima pone l’Amore «in mezzo tra la sapientia e la ignorantia», perché l’amore per suo obiecto seguita le cose belle: delle cose belle la sapientia è la più bella, e però appetisce la sapientia. Colui che appetisce la sapientia non la possiede in tutto, perché chi è quello che cerchi quello ch’e’ possiede? E ancora interamente non ne manca, ma in questo solo almeno è savio, che riconosce la ignoranza sua, e colui che non sa sé non sapere sanza dubbio non sa le cose e non sa el suo non sapere, e non desidera la scientia della quale non s’avede che sia privato. Adunque l’amore della sapientia, perché è in parte di sapientia privato, e in parte è sapiente, però in mezzo tra la sapientia e la ignorantia si pone. Disse Diotima questa essere la conditione dello Amore, ma la conditione della superna bellezza è questa: che è dilicata, perfecta e beata; dilicata in quanto per la sua suavità l’appetito di tutte le cose a sé allecta, perfecta in quanto le cose che allectò tirando le illustra co’ razzi suoi e falle perfecte, beata in quanto empie le cose illustrate de’ beni eterni.