Duemila leghe sotto l'America/XVI. Una miniera di carbone che arde
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CAPITOLO XVI.
Una miniera di carbone che arde.
L’indomani, 13 Dicembre, al primo chiarore che entrò nel gigantesco cono, i quattro avventurieri lasciavano l’isolotto per continuare la perlustrazione cominciata il dì innanzi.
La temperatura era ancora elevata, e dalla grande galleria meridionale usciva ancora un fumo nero e puzzolente che elevavasi lentamente verso il cratere del vecchio vulcano. Senza dubbio l’incendio continuava sul fiume di scarico e forse ad una grande distanza.
Attraversato il lago, gli esploratori arenarono il battello in un piccolo ma grazioso seno formato da due altissime rupi. Accesero le lampade e munitisi di picconi, di una pentola e di una certa quantità di viveri, salirono la costa che in quel luogo era molto erta.
— Dove andiamo? chiese Burthon.
— Sempre verso l’est, rispose l’ingegnere guardando la bussola che mai abbandonava.
— È in questa direzione che sperate di trovare il carbone?
— Sì, e ti assicuro che lo troveremo. In cammino, amici.
La via era tutt’altro che buona. C’erano qua e là degli immensi accumulamenti di dejezioni vulcaniche che obbligavano gli esploratori a fare dei grandi giri, delle roccie altissime di granito eruttivo e di basalto, e degli ammassi considerevoli di lave alcune rosse rosse e altre di un giallo bellissimo che riflettevano i raggi delle lampade. Oltre a ciò, molto spesso s’aprivano delle grandi e profonde fessure, nel fondo delle quali s’udivano sempre correre, con un cupo muggito, dei furiosi torrenti che senza dubbio andavano a scaricarsi nel lago.
Salendo e ora discendendo, girando le rocce quando la scalata diventava impossibile e saltando i crepacci, dopo una buona mezz’ora gli esploratori si trovavano dinanzi ad una tenebrosa e molto larga galleria che correva verso il sud-est. Le pareti tagliate a picco erano di basalto e dalle vôlte pendevano dei cristalli di limpidissimo quarzo che scintillavano come diamanti sotto i raggi delle lampade.
— Dove si va? chiese Burthon.
— Sempre avanti, disse l’ingegnere.
— Dove ci condurrà questa galleria?
— Non lo so, ma in qualche luogo sbucheremo. To’, cos’è questo odore?
— Si direbbe che del carbone abbrucia, disse Morgan.
— E chi vuoi che abbruci del carbone? chiese O’Connor. Tu non hai naso, macchinista.
— Non m’inganno io, irlandese. Ho passato varii anni in mezzo ai carboni.
— Morgan ha ragione, disse l’ingegnere. Oh!... oh!...
Alzò la lampada e guardò in aria. Un fumo nerastro radeva lentamente la vôlta della galleria.
— Del fumo! esclamò.
— Del fumo!.... esclamarono i suoi compagni al colmo della sorpresa.
— Da dove viene questo fumo? si chiese l’ingegnere.
— Che ci sia qualcuno che sta cucinando un pudding? disse Burthon ridendo.
— Andiamo avanti, disse sir John. Sapremo ben presto da dove viene questo fumo...
— Di carbon fossile, aggiunse Morgan.
Si cacciarono sotto la galleria avanzando con passo rapido. Tutti erano curiosi di sapere da dove proveniva quel fumo che, cosa strana davvero, tramandava un odore di carbon fossile.
La galleria ben presto si allargò e si elevò assai. Sir John alzò tre o quattro volte la lampada per vedere se il fumo continuava a radere le vôlte e con sua maggior sorpresa vide che era diventato assai più abbondante e più nero.
Avevano percorso cento altri passi quando sir John improvvisamente si arrestò guardando attentamente il terreno.
— Cosa avete visto? chiesero Burthon e O’Connor ad una voce.
— Guardate qui.
Sul nero terreno si vedevano delle efflorescenze biancastre bellissime e quasi tutte circolari. Erano fiori di zolfo, di allume e di sale ammoniaco.
— Cosa vuol dir ciò? chiese Burthon che diventava molto inquieto.
— Abbiamo la chiave del mistero, disse l’ingegnere. Sì, non m’inganno, questo fumo e questo calore provengono da una miniera di carbone che abbrucia.
— Una miniera di carbone che abbrucia!... esclamarono Burthon, Morgan e O’Connor.
— Sì, amici, e non m’inganno io. Camminiamo.
Ripresero la marcia con passo ancor più rapido, spinti dalla più viva curiosità. Man mano che si avanzavano il fumo diventava più denso e e il calore cresceva in siffatta guisa da diventare quasi intollerabile.
Dopo dieci minuti gli esploratori sbucavano in una negra pianura, sulla quale si vedevano ondeggiare enormi masse di fumo. Dappertutto apparivano larghi fiori di zolfo, di sale ammoniaco e d’altri sali alluminosi.
— Corna di cervo! Dove siamo noi? chiese Burthon.
— Sopra una miniera di carbon fossile che abbrucia, disse sir John.
— Ma allora qualcuno è venuto qui, disse Burthon.
— E da che arguisci ciò?
— Diamine! La miniera non si sarà accesa da sè sola.
— Ma forse abbrucia da mille anni.
— Da mille anni!... Ecco una cosa che non crederò mai, signore!
— Devi crederla, amico Burthon. E dico mille anni per dire che abbrucia da molto tempo. Forse sono duemila, tremila anni.
— Ma può una miniera abbruciare per delle migliaia d’anni? chiese Morgan.
— E perchè no? A Brulè, presso Sainte-Etienne, in Francia, vi è una miniera di carbone che arde da tempi immemorabili.
— E arde ancora? chiese Burthon.
— Continua ardere, nè cesserà finchè ci sarà del carbone là sotto. Nella Slesia, nel bacino di Sarrebruk c’è pure una miniera che arde da molti anni; a Faziolle, fra Namur e Charleroi, nel Belgio, ce n’è un’altra che continua a bruciare e che non sono capaci di spegnerla. E una ce n’è pure in Inghilterra, nei dintorni di Dudley, la quale tramanda un calore così dolce che sopra vi crescono alberi tropicali e vi si fanno due e perfino tre raccolti all’anno.
— Ma chi le accese?
— È impossibile saperlo. Forse si sono accese da sè.
— Ma in qual modo? Io non ho mai visto del carbon fossile accendersi senza darvi fuoco.
— Quando si lasciano dei carboni minuti in un’aria umida e calda non tardano a fermentare e quindi si accendono. È vero Morgan?
— Verissimo, rispose il macchinista.
— Ma queste miniere che abbruciano non si possono spegnere? chiese O’Connor.
— Qualche volta sì e varii sono i mezzi. Per lo più si proietta sul carbone acceso dell’acido carbonico ottenuto colla combustione di una massa di coke. La fiamma ricevendo dell’aria priva dell’elemento comburente si spegne da sè. Si adopera pure, e molto spesso, il vapore acqueo che agisce come un gas inerte. Se nè il primo nè il secondo mezzo riescono, allora si ottura la galleria incendiata con un muro d’argilla sicchè venendo meno l’aria il fuoco finisce collo spegnersi.
Ma non di rado avviene che questi incendi, malgrado il muro d’argilla brucino per anni e anni ricevendo l’aria da piccole fessure che sfuggono agli occhi degli ingegneri.
— Che siano stati i chinesi a incendiare questa miniera? chiese Burthon.
— Quali chinesi? chiese sir John.
— Quelli che seppellirono quell’individuo che trovammo mummificato.
— Potrebbe essere. Si sa che i primi a conoscere il carbon fossile furono i chinesi e forse quelli che seppellirono la mummia qui discendevano per prenderne.
— Io credeva che fossero stati gli Inglesi i primi ad adoperarlo, disse Morgan.
— No, amico mio, disse sir John. I Chinesi adoperavano il carbone fino dai primi anni dell’êra volgare. In Inghilterra si lavorarono le miniere solamente nell’XI secolo.
— E quali miniere?
— Quelle di New-Castle.
— E non sono ancora esaurite? Ma quanto carbon fossile contengono? chiese Burthon all’ingegnere.
— Molto, Burthon, molto. L’Inghilterra si può dire che è tutta una miniera.
— Ma col tempo si vuoterà, disse Morgan.
— Sì, e ciò accadrà fra 277 anni secondo alcuni o fra 130 e anche assai prima, fra 110, secondo altri. Faccio osservare però che io parlo del carbone esistente fra la superficie della terra e la profondità di quattromila piedi.
— Ma non si trova più carbone oltre i quattromila piedi di profondità? chiese Burthon.
— Certamente che se ne trova, ma non si potrà andarlo togliere se non quando i minatori avranno imparato a vivere e lavorare dove l’acqua bolle.
— Perchè mai?
— Perchè a siffatta profondità il calore è insopportabile. Nella miniera di Rosebridge che è la più profonda che ci sia in Inghilterra, c’è una temperatura di 27 gradi Rèamur.
— E quanto è profonda? chiese Morgan.
— Solamente 2419 piedi.
— E noi, come faremo a scavare il carbone in questa miniera che arde? chiese O’Connor.
— Con una mina, rispose l’ingegnere.
— E non ci cadrà sul cranio la vôlta?
— Se non è caduta quando il vulcano era in piena attività non cadrà nemmeno oggi per lo scoppio di una semplice mina.
— All’opera, adunque, disse Burthon. Caricheremo di carbone il battello fino al bordo.
— Io e O’Connor prepareremo la mina, disse sir John. Tu Morgan ti recherai con Burthon al battello e ci porterete un paio di cartuccie e alcune miccie.
Mentre i due cacciatori s’allontanavano di corsa l’ingegnere e il marinaio si misero a scavare un buco a trecento metri circa dalla miniera, della profondità di circa un metro. Avevano appena terminato lo scavo che giungevano Morgan e Burthon cogli oggetti richiesti.
L’ingegnere tastò prima le pareti del buco per sentire se erano calde e trovatele solamente tiepide vi introdusse una grossa cartuccia munita di una lunga miccia.
— Preparate le gambe, disse.
Accese la miccia e si allontanò di corsa seguito dai compagni, arrestandosi a mezzo chilometro di distanza.
— Quanto durerà la miccia? chiese O’Connor.
— Quattro minuti, rispose sir John estraendo l’orologio. State saldi se non volete cadere.
— Appoggiamoci alla parete, disse Morgan. La spinta dell’aria sarà irresistibile.
Tutti seguirono il consiglio del macchinista e si appoggiarono alla parete, guardando attentamente e con viva ansietà la fumante miniera che era lì lì per squarciarsi. Sopra i carboni ardenti si vedevano, di quando in quando, volteggiare delle scintille che una corrente d’aria, chissà mai da dove proveniente, portava attraverso le tenebre.
— Quattro minuti! esclamò ad un tratto l’ingegnere.
Un istante dopo una fiamma gigantesca squarciava la miniera scagliando a destra e a sinistra enormi massi di carbone e saliva verso la vôlta illuminando vivamente le caverne e le gallerie, seguita subito da uno scoppio formidabile paragonabile solo allo scoppio simultaneo di cento pezzi d’artiglieria.
Parve che tutto crollasse. Tremò il suolo, traballarono le rupi, tentennarono le colonne, franarono in varii luoghi le vôlte lasciando cadere enormi roccie. I quattro esploratori, investiti da una furiosa corrente d’aria caddero a terra l’un sull’altro e le lampade si spensero.
Per cinque minuti un continuo fragore, mandato e rimandato dagli echi degli antri, delle caverne e delle gallerie, turbò il silenzio che poco prima regnava nelle viscere della terra, poi a poco a poco cessò.
L’ingegnere, Morgan, O’Connor e Burthon ammaccati per l’improvviso capitombolo, si alzarono guardando all’ingiro colla più viva ansietà.
Nella galleria regnava una profonda oscurità, essendosi, come si disse, spente le lampade, ma al di là, verso la miniera, si vedevano scintillare centinaia e centinaia di massi di carbone e proprio nel mezzo, su una lunghezza di oltre centocinquanta piedi, una gran fenditura fiammeggiante che mandava in aria nembi di faville e nubi di fumo.
— Accendiamo le lampade, disse l’ingegnere.
Le lampade di sicurezza furono accese e i quattro esploratori uscirono dalla galleria che cominciava ad essere invasa dal fumo causato dall’esplosione.
La cartuccia di polvere aveva proprio squarciato il suolo e la fenditura si prolungava fino al carbone acceso. Tutto all’intorno vi erano massi enormi di carbone, alcuni ardenti ma altri no e questi ultimi in quantità tale da caricare un battello tre volte più grande dell’Huascar.
Morgan prese uno di quei pezzi e l’esaminò attentamente.
— È carbone eccellente, disse poi.
— Ebbene amici, al lavoro! comandò l’ingegnere.