Due madri
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DUE MADRI
PICCOLO DRAMMA
DI
BRUNO SPERANI
MILANO
CARLO ALIPRANDI, Editore
Via Stella, N. 9-10.
DUE MADRI
ATTO UNICO.
SCENA PRIMA.
Elisabetta, vecchia serva.
Indi Lina Maggi, giovine telegrafista. Poi Cesarino.
Elisabetta (va innanzi e indietro dalla cucina alla sala preparando la tavola per la colazione della signorina Maggi e del piccolo Cesarino. Uno squillo di campanello la fa correre in anticamera).
Lina Maggi (entra in sala e si guarda intorno). — Dov’è il bambino?
Elis. — Dorme...
Lina. — Gli è tornata la febbre?...
Elis. — Oh, giusto! Donne perchè ha fatto troppo chiasso e si è stancato.
Lina. — Cattivo segno però. (Entra nella camera mentre la vecchia la guarda scrollando il capo in aria di compassione).
Elis. (da sè). — Sarebbe una liberazione per lei se le morisse... e lei non vive che per lui! Sempre così noialtre disgraziate.
Lina (rientra senza cappello e senza mantello; siede a colazione. Elisabetta serve). — Che malinconia mangiare senza di lui! Povero angelo. Pare tranquillo; ha le carni fresche. Ma è impossibile che stia proprio bene, qui, sempre qui, lui che era abituato in compagna, all’aria libera..., povero amore!
Elis. — Mi pare che non è sempre chiuso qui.
Lina. — Oh, Dio! per quelle poche passeggiate.... ci vorrebb’altro!... Ci vorrebbe un giardino, dei piccoli compagni.... Invece, anche quelle poche passeggiate sono un pericolo. Se tu sapessi, Elisabetta, se tu sapessi che spasimo stamattina!
Elis. — Cosa è successo?...
Lina. — Eravamo lì in sala, in un momento di riposo; si chiacchierava secondo il solito; allorché la direttrice, piantandomi in faccia quei suoi occhi, che pungono come punte di spilli, mi domandò di chi era il bambino che avevo con me domenica. Si era fatto silenzio e tutte aspettavano la mia risposta.
Elis. — Oh, le sarà parso! Via, non si affanni così; mangi questo pezzetto....
Lina. — No, mi basta. Mangerò piuttosto questa pera. Mi sará parso, tu dici? Può darsi. Ma io mi son sentita morire. Mi pareva impossibile di poter dire una parola.
Elis. — Non si sarà fatta scorgere, spero?
Lina. — Credo di no. Se non mi hanno tradita le fiamme che mi salirono al viso. Trovai, non so come, la forza di dire che era un mio nipote, figlio di una mia sorella maritata nel Veneto — come diciamo a tutti. Ma la mia voce tremava. Una volta o l’altra mi tradirò; è così brutto mentire! (si alza).
Elis. — E perdere il posto?...
Lina. — Oh, povera me, povera me!...
Elis. — Via, si colmi; si faccia coraggio. Beva un dito di vino. S’è alzata da tavola senza bere.... Ma come vuole aver coraggio così? e star bene? Come? (Porge a Lina il bicchiere, e Lina beve alcuni sorsi). Lei deve dar retta a me, alla sua vecchia serva, che le vuol bene. Guardi un po’ certe altre come fanno. Impari. Impari dalla signora Erminia, per esempio.
Lina. — Taci! Non nominarla quella lì. Non nominarla, te lo proibisco. (Fa alcuni passi per la sala e s’accosto all’uscio della camera origliando; poi ritorna al proscenio). Certo che se io fossi come quella...
Elis. — Avrebbe marito, farebbe la signora....
Lina. — Basta, Elisabetta! Avrei dovuto ingannare un uomo onesto, abbandonare il mio bambino.... Oh! tu stessa, che sei una povera campagnuola, che hai passato tutta la vita nelle case degli altri, tu non l’avresti fatto.... Non l’hai fatto!
Elis. (vivamente, commossa). — È vero. Ha ragione. Non l’ho fatto. Ma appunto perchè so cosa vuol dire, appunto perchè ho patito tanto; mi fa male di veder lei, che è tanto più sensibile, tanto più delicata, patire come me. Mi pare una ingiustizia troppo grande.
Lina (le si accosta e le posa affettuosamente una mano sulla spalla). — Buona Elisabetta. Pensa quanto di più patirei se non avessi il mio bambino e se dovessi tremare continuamente.
Cesarino (di dentro). — Elisabetta! Elisabetta!
Lina. — Ah!... (accorrendo).
Ces. — È venuta la zia?
Elis. — Sì....
Lina. — Sono qui, caro. Come stai? (Entra nella camera, da dove ritorna quasi subito tenendo il piccino per la mano).
Ces. — Sto bene, sai, zia. E tu?
Lina. — Anch’io, amore. Vuoi far colazione?
Ces. Sì, ho fame. Ma prendimi prima un momento in braccio.
Elis. — Eh, Cesarino! Sai che non sta bene!
Lina. (alzandolo fra le sue braccia). — Per una volta, poverino!...
Ces. (gettandole le braccia al collo). — È stato per baciarti meglio. Come sei bella, zia!... Zia!... Mi piacerebbe di più chiamarti mamma.... È più bello mamma!... Non ti piace, a te?... Non vuoi? Di’, perchè non vuoi?
Elis. (intervenendo, mentre Lina, angosciata, nasconde il viso sulla spalla del bimbo, che tiene sempre in braccio). — Perchè è tua zia, oh bella!
Ces. (dopo un momento di riflessione). — Che peccato!... Ma la mia mamma, allora, dov’è? Tutti i bambini hanno una mamma.
Elis. (asciugandosi le lagrime di nascosto col grembiale) — La tua mamma è.... in paradiso.
Ces. (ripete mortificato). — In paradiso!
Lina (con impeto, rialzando la testa e guardando il bimbo negli occhi). — No, amore, no! La tua mamma è qui con te. Sono io.
Ces. (batte le mani con gioia). — Mamma! Mamma! O cara mamma! (Le cinge il collo con le braccine e la bacia).
SCENA II.
La signora Erminia entra dalla centrale,
fermandosi, sulla soglia.
Lina. — Erminia!
Erminia. — Scusami, sai; ho chiamato tante volte.... ho anche suonato! Ma, poichè nessuno veniva, e io sentivo la tua voce, mi son fatta lecito di entrare. (Pausa).
Lina (depone a terra il bambino, lo bacia, gli raccomanda di esser buono, e fa cenno a Elisabetta di condurlo in cucina. Essi escono). — Hai qualche cosa a dirmi? La tua visita inaspettata deve avere un grave motivo.
Erm. — Un grave motivo difatti. Ma questa scena di tenerezza mi ha fatto un certo effetto. Quello è dunque il bambino! Me ne avevano parlato, ma non credevo che tu... Del resto, fai bene a farti chiamar mamma: è più semplice e più simpatico. Le zie sono sempre un po’ sospette.
Lina. — È per dirmi questo che sei venuta?
Erm. — No. Ma veramente sono sbalordita.
Lina. — Sbalordita, tu? Non è facile.
Erm. — Difatti, non è facile. Ma la tua sfacciataggine è così superlativa da sbalordire i più calmi.
Lina. — Ti avverto che non ho tempo. È il tocco; devo essere da capo all’ufficio prima delle due. Se hai a dirmi qualchecosa che meriti di essere ascoltato, ti accordo mezz’ora, altrimenti me ne vado subito.
Erm. — È strano il tuo contegno. Si direbbe, a sentirti, che sei tu l’offesa.
Lina. — Sei sicura del contrario?
Erm. — Io rivendico i miei diritti.
Lina (sempre calma e un po’ sprezzante). — Quali?
Erm. (aspra, e con la voce soffocata dalla collera). — Mi pare che tu spinga l’ardire agli estremi. Come! Tu sei stata l’amante di mio marito, tu hai un figlio, che è suo, e lo tieni in casa e ti fai chiamar mamma, nella tua condizione! Non basta; con questo figlio tu vieni a stare qui, vicino a me e quindi vicino a lui, evidentemente perchè egli lo veda.... E pretendi che io non capisca, o finga di non capire? E pretendi che io taccia?
Lina. — Quando hai sposato Ernesto, tu sapevi che egli era stato il mio amante. Perché l’hai sposato?
Erm. — Perchè mi ha giurato che non ti amava più; che non eri stata per lui altro che un capriccio. Ed io gli ho creduto. Mi pareva così naturale.
Lina. — Ah! Perciò ora ti sembra ugualmente naturale che egli sia stanco di te.... e hai paura che ritorni a me?
Erm. — Questo no. Io sono sua moglie....
Lina. — E io la madre di suo figlio....
Erm. (esitando un momento). — Ho anch’io una figlia.
Lina (accostandosele e fissandola intensamente). — Tu?... sì; ma lui, no!
Erm. — Che intendi? Sei pazza?... È troppo, mi pare! Vantarti con me, della tua colpa, della tua vergogna!... con me, con una donna onesta, con la moglie....
Lina. — Basta! (dopo un momento di silenzio, frenando a stento la propria commozione e ricomponendosi). Via, bando alle frasi. Parliamoci francamente. Cosa vuoi da me?
Erm. — Che tu non veda mio marito....
Lina. — Tuo marito? Ma tu credi dunque che io possa ancora amarlo, dopo il suo tradimento, dopo il suo abbandono?... Egli è morto per me, come uomo. Non vedo in lui che il padre del mio bambino.
Erm. — È ben questo ch’io non voglio. È ben questo. Se tu non avessi il figlio.... saresti per me, moglie, una di quelle che una mia pari ignora, o finge d’ignorare, Ma tu mi offendi appunto nella parte più sensibile: nella mia maternità. Poichè, io pure adoro la mia bambina, e il tuo bastardo le può rubare il cuore di suo padre!
Lina (pallidissima, fa atto di gettarsi sulla rivale, ma riesce a contenersi). — È troppo! Tu passi il limite. Guai a te! guai a te! (Fa alcuni passi per la stanza e s’accosta alla sua scrivania. Apre convulsamente un cassetto, poi lo richiude. Più calma torna verso L’Erminia, che avrà seguito, ogni suo movimento con occhio indagatore).
Lina (la sua voce è mutata). — Ascoltami bene. Se Cesarino è quello che tu hai detto, la tua Emma non ha nulla da invidiargli.... e io no ho le prove.
Erm. (sconvolta, livida). — Tu menti! Non esistono prove.
Lina (con una risata schiacciante). C’è intanto la tua confessione. Non esistono prove: dunque, il fatto, sì, esiste.
Erm. (cercando di ripigliarsi al colmo dello sgomento). — Tu menti! tu menti!... Io.... non so nulla.
Lina. — Taci; mi fai pietà. Sai troppo bene che io non mento. E anche le prove esistono. Ti ricordi la tua passeggera amicizia con Laura Fiori? Posso nominarla perchè è morta.
Erm. (irritata e confusa). — Non rammento nulla: sono tutte menzogne. (Vuol andarsene).
Lina. — Fermati e ascoltami. Qui comando io. Un giorno Laura si era recata da te; ti aspettava nel salottino e tu tardavi. A un tratto, ti precipiti là dentro e le consegni un pacchetto di lettere, pregandola di nasconderle e bruciarle appena arriva a casa. Tuo marito ti frugava i cassetti e temevi che ti frugasse anche gli abiti. A Laura dicesti che erano lettere dirette a tua cognata da un giovanotto.
Erm. — Ed era vero, e Laura mi ha giurato di averle bruciate.
Lina. — Non è vero. Non vi siete più vedute da quel giorno, perchè Laura dovette partire e pochi mesi dopo ammalò e morì. Io l’assistevo: avevo avuto il posto a Venezia insieme a lei. Le confidai la mia sventura; e prima di morire ella mi diede le tue lettere, perchè me ne valessi, come arma di difesa in un caso estremo. Ti conosceva a fondo la povera Laura.
Erm. — Tutte menzogne. Se tu hai codeste lettere, mostramele. Ah! ti sfido a mostrarmele. Sono tue invenzioni.
Lina. — Le ho e sono ben custodite. Non le mostrerò altroche a tuo marito, se non mi lascierai in pace, se oserai mischiarti nei fatti miei. Oh, sei ben fatua se hai potuto credere che una donna così crudelmente ferita da te, non approfittasse della tua debolezza per farsene un’arma contro la tua prepotenza.
Erm. (schiacciata dalla impotente collera e dall’umiliazione, nasconde il viso fra te mani e piange rabbiosamente. Alcuni momenti di silenzio).
Lina. — Tu piangi. È la tua ora. Se tu sapessi quanto piansi io; quante angoscie, quante pene, mi costò il tuo trionfo. Io avevo dato tutta la mia vita a quell’uomo: credevo in lui come in Dio: Mi aveva chiesta a mio padre: ci eravamo promessi.... Oh, lo so! questo non iscusa il mio fallo. Dovevo resistere alle sue preghiere, alle sue seduzioni: dovevo diffidare, calcolare. (Cambiando voce e accento) Ma se ho sbagliato, pago; epperò questo non c’entra. Vi sono altre colpevoli, più colpevoli di me.... io credo..., che non pagano e passano trionfanti, col sorriso sul labbro, davanti alle cadute mie pari. Non dirmi crudele se le tue lagrime non mi commovono, tu sei tra quelle superbe colpevoli, che l’inganno protegge. Ti ricordi quando è nata la tua Emma? Che feste nella tua casa!... Il giorno del battesimo io guardavo il corteo dalla mia finestra, nascosta dietro le gelosie. Che lusso, che treno! Pareva che portassero a battezzare la figliuola di un re.... ed era una bastarda.... sì! come tu hai detto di Cesarino. Una bastarda fortunata. Oh! non mi chiedere quello che provai in quei momenti! Rivedevo la notte in cui il mio bambino, appena nato, veniva portato via, di nascosto, portato lontano, in campagna, fra gente ignota, in una povera casa di contadini; ignominiosamente celato.... Sei madre, ami la tua bambina, devi bene intendere quello che ho sofferto!... Oh! devi versarne tante delle lagrime, per smorzare il fuoco che mi brucia!... (Si butta su una sedia, spossata, singhiozzante).
Il bambino (di dentro). — Mammina!... Non vai all’ufficio? È l’ora! Cesarino vuol darti un bacio prima che tu vada. Mamma.... zia!... Apri, dunque!
(Lina si alza, si rasciuga gli occhi, cerca di ricomporsi, e corre in camera a prendere il cappello e il mantello.
Nel frattempo anche l’Erminia si leva in piedi, movendosi a scatti, come spezzata.
Lina rientra, depone mantello e cappello sopra una sedia e comincia a vestirsi, con quel fare automatico di una persona che pensa a tutt’altro.
Il bambino continua a chiamare dalla cucina, picchiando all’uscio. Si sente la voce della vecchia che lo ammonisce di stare zitto).
Erm. (dopo di essersi asciugati gli occhi e ravviati i riccioli sulla fronte, con evidente preoccupazione di cancellare ogni segno di disordine dalla sua persona, si accosta a Lina). — Un’ultima domanda. Avendo le prove del mio fallo, per quale incomprensibile generosità, non le mandasti a.... mio marito?
Lina. — Incomprensibile generosità!... Hai ragione: incomprensibile per te. Ecco: sapevo che egli avrebbe sofferto, e mi è mancato il cuore di farlo soffrire. D’altra parte, ho giurato a Laura di non servirmene, altro che in un caso estremo.
Erm. (dopo un momento di silenzio). — Allora, rendimi quelle lettere.... sii completamente generosa.
Lina. — Ah! questo poi no. Sono madre e devo difendere la mia creatura.
Erm. — Cosa vuoi fare?
Lina. — Voglio che Ernesto riconosca suo figlio, Il bimbo è nato prima che egli ti sposasse, dunque può riconoscerlo.
Erm. — Ma io non lo permetterò mai.
Lina. — Oh! tu lo permetterai, invece! Se mi osteggi.... Hai capito?
Erm. — E se non ti osteggio.... Se ti aiutassi?
Lina. — Il giorno in cui Cesarino sarà riconosciuto e porterà il nome di suo padre.... tu non avrai più nulla a temere da me: distruggerò quelle lettere.
Erm. (dopo una pausa). — Sia. Accetto il patto. Da madre a madre!
Lina. — Da madre a madre. Addio.
Erm. — Addio.
Cesarino. — Apri, mammina.
Lina apre. Il bimbo esce. Ella s’inginocchia per abbracciarlo e baciarlo con trasporto).
Cala la tela.