Don Chisciotte della Mancia Vol. 2/Capitolo XXVII

Capitolo XXVII

../Capitolo XXVI ../Capitolo XXVIII IncludiIntestazione 27 dicembre 2016 75% Da definire

Capitolo XXVI Capitolo XXVIII

[p. 254 modifica]


CAPITOLO XXVII.


Si fa sapere chi fosse maestro Pietro e lo scimiotto, ed il mal successo di don Chisciotte nella ventura del raglio dell’asino, che non la fini com’egli avrebbe voluto, e com’erasi immaginato.


CC
omincia il cronista della presente alta istoria Cide Hamete questo capitolo colle seguenti espressioni: Giuro da cattolico cristiano... Il suo traduttore osserva che il giuramento da cattolico cristiano, fatto da Cide Hamete, essendo egli moro (di che non v’ha dubbio), altro non può significar se non che, siccome quando giura il cattolico cristiano giura o dee giurar il vero, così egli prometteva che continuando l’istoria di don Chisciotte avrebbe detto la verità sì puramente come quella giurata da un cattolico cristiano; e l’avrebbe fatto adesso specialmente che trattavasi di rendere palese chi fosse maestro Pietro, e lo scimiotto, il quale attiravasi la universale maraviglia di quelle genti colle sue indovinazioni. Dice dunque che molto bene si sovverrà chi lesse la prima Parte di questa istoria di quel Gines di Passamonte cui, fra gli altri galeotti, diede libertà don Chisciotte in Sierra Morena: benefizio mal ricevuto, e ingratamente corrisposto da tutta quella maligna e infame gentaglia. Questo Gines di Passamonte, che con altro nome era chiamato da don Chisciotte Ginesuccio di Parapiglia, fu quel desso [p. 255 modifica]che rubò a Sancio Panza il leardo, di che non leggendosi (per colpa degli stampatori) il come e il quando nella prima Parte della istoria, si fecero molte persone ad accusar l’autore d’inesattezza, quando pure doveva ciò ascriversi unicamente a difetto di stampa. Gines in fatti rubò a Sancio il leardo mentre egli vi stava sopra dormendo, e si è valso di quell’astuzia stessa che adoperò Brunello quando trovandosi Sacripante al conquisto di Albracca gli tolse il cavallo di sotto alle gambe, e fu indi ricuperato. La ventura di maestro Pietro fu come segue. Gines di Passamonte temendo di esser colto dalla giustizia che lo cercava per punirlo delle infinite sue furfanterie delle quali egli stesso compose un gran volume per darne conto, determinò di passare nel regno di Aragona e di fingersi cieco dall’occhio sinistro. In quel tempo si dedicò alla professione di burattinaio ciarlatano; poichè in questa, e nel giuocare di mano egli era eccellente. Ora accadde che da un cristiano venuto di Barberia e uscito di cattività comperò quello scimiotto, e lo addestrò con certi segni a saltargli sulle spalle, ed a fingere di mormorargli qualche cosa all’orecchio; e con questa industria prima di entrare in qualche paese, dove divisato avea di portarsi col suo casotto e collo scimiotto, informavasi dalle genti del più vicino paese, o da chi più gli cadeva in acconcio, quali cose più singolari fossero nel tale paese avvenute ed a quali persone; e ritenendole bene a mente, cominciava dall’esporre al pubblico il casotto in cui variava rappresentando ora una istoria ora un’altra, sempre però gioconda e festevole e a tutti nota. Finita che avea quella mostra, metteva in campo le abilità del suo scimiotto, facendo supporre al popolo che egli indovinava il presente, ma che nel futuro non ci aveva grazia. Chiedeva due reali per ogni risposta a qualunque dimanda, ma qualcuna la dava anche a più buon mercato, secondo che conosceva l’umore di quelli che interrogavano. Portandosi qualche volta alle case di gente di cui sapeva qualche successo, sebbene non gli facessero interrogazioni per non pagarlo, tuttavia invitava cogli usati cenni lo scimiotto, poi dicea che gli avea rivelata la tale o tal cosa, la quale calzava a pennello con ciò ch’era avvenuto realmente. Con questi mezzi s’era acquistato gran credito, e veniva desiderato per ogni dove. Altre volte, come colui ch’era di molta astuzia, rispondeva in maniera che le risposte quadravano colle proposte; e siccome non era mai eccitato a ventilarle, nè costretto a far conoscere con quale industria divinasse quel suo scimiotto, così ingannava tutti e vuotava a tutti la borsa. Appena entrato nell’osteria egli aveva conosciuto don Chisciotte e Sancio, e ciò gli rese facile la strada a far maravigliare il padrone e lo [p. 256 modifica]scudiere e tolti quelli che si trovavano presenti: ma gli sarebbe costata ben cara la sua arte se don Chisciotte avesse abbassata un po’ più la mano quando recise la testa al re Marsilio e distrusse tutta la sua cavalleria, siccome si è detto nel precedente capitolo. Questo è tutto quello che può raccontarsi intorno a maestro Pietro ed al suo scimiotto.

Tornando ora a don Chisciotte della Mancia, soggiungo che dopo essere uscito dall’osteria stabilì di vedere le belle sponde dell’Ebro e tutti quei contorni avanti di entrare nella città di Saragozza, avendo opportunità ed agio a farlo per essere tuttavia lontano il tempo in cui doveano seguire le giostre. Con tale divisamento proseguì il suo viaggio, nel quale occupò due giorni senza che gli accadesse cosa degna di essere memorata; e nel terzo, allo scoprire di una spiaggia, udì gran rumore di tamburi, di trombe e di spari di archibugi. Diessi a credere sul principio che derivasse questo [p. 257 modifica]rumore da qualche passaggio di compagnie militari per quella parte, e perciò spronando Ronzinante salì all’alto di quella spiaggia. Quando pervenne sulla eminenza scorse ai piedi, per quanta almeno gliene parve, più di dugento uomini armati con differenti maniere d’armi, come a dire, lancioni, balestre, partigiane, alabarde, picche, alquanti archibugi e molte rotelle. Calò ed accostossi allo squadrone in modo che vide distintamente le bandiere, potè giudicare dei colori e notare le imprese che portavano. In una singolarmente di raso bianco, la quale sventolava sopra uno stendardo o gherone, stava dipinto un asino piccolo come quei di Sardegna, col capo un po’ alzato, colla bocca aperta e colla lingua al di fuori, in atto e positura come se stesse ragliando; ed all’intorno era scritto a caratteri maiuscoli il seguente motto: Non ragliarono invano i nostri due Alcadi.

Da questa insegna conobbe don Chisciotte che quella gente dovea essere del paese del raglio, e tosto ne fece motto a Sancio dichiarandogli ciò che stava scritto su quello stendardo. Gli disse pure che chi avea loro narrato l’avvenimento del raglio, avea sbagliato nell’asserire che due giudici fossero quelli che ragliarono, perchè dal motto dello stendardo erano due alcadi. Allora Sancio Panza soggiunse: — Signore, non è da farne caso, mentre potrebb’esser che i giudici che ragliarono allora, fossero poi stati eletti alcadi di questo stesso paese, e perciò stava loro bene l’uno e l’altro titolo. E tanto meno è questa cosa da considerarsi quanto che nulla monta per la verità della istoria che i due ragliatori sieno alcadi o giudici, perchè corre tanto a risico di ragliare un alcade quanto un giudice. Riconobbero in fine, e seppero come il popolo che aveva avuto le beffe, andava ad azzuffarsi con l’altro, il quale si era fatto lecito di schernirlo più che non convenisse al giusto ed alla buona vicinanza. Don Chisciotte si appressò loro; ma con molto dispiacere di Sancio, cui non andò mai a sangue il trovarsi presente in simigliante giornate. Quelli dallo squadrone lo misero nel mezzo, supponendolo uno del loro partito, e don Chisciotte alzando la visiera, con gentilezza e con bel contegno pervenne fino allo stendardo dell’asino. Ivi se gli accostarono tutti i principali dell’esercito per vederlo, vinti dalia maraviglia in cui erano tutti coloro che l’osservavano per la prima volta. Quando egli si accorse di essere sì attentamente osservato senzachè veruno gli facesse alcuna dimanda, divisò di metter a profitto l’altrui silenzio, e rompendo il suo, alzò tosto la voce, e così si fece a parlare: — Quanto per me si possa io sono a pregarvi, miei buoni signori, che non isturbiate la concione che voglio ora farvi, [p. 258 modifica]sinchè essa non vi dispiaccia o vi annoii: che se ciò avvenisse, al più picciolo motto che voi farete, porrò alla mia bocca il sigillo e s’infrenerà la mia lingua„. Lo eccitarono tutti a dire ciò che gli tornasse più in grado, assicurandolo che ben volentieri starebbero ad ascoltarlo. Ottenuta quest’approvazione, continuò così: — Io, miei signori, sono cavaliere errante, il cui esercizio si è il trattare le armi; e la mia professione si manifesta nel dar favore a quelli cui rendesi indispensabile, e nel soccorrere chi trovasi in necessità. Seppi or sono varii giorni, la disgrazia vostra e la cagione che adesso vi muove alla zuffa per vendicarvi dei vostri nemici. Ho più e più volte fatto meco stesso ragionamento intorno alle vostre discordie, e trovo, secondo che trattano le leggi del duello, che voi andate errati nel tenervi offesi, mentre un intero popolo non può dirsi affrontato da un individuo, quando un tale popolo tutto unito non venga accusato di fellonia, per poter sapere a quale individuo in ispecialità si possa applicare l’accusa. Ne abbiamo un esempio in Diego Ordognez di Lara, il quale accusò tutta la gente zamorana, perchè ignorava che il solo Veglido Dolfo si fosse fatto reo di tradimento nella uccisione del suo re; quindi estese su tutti l’accusa, e ad ognuno restava diritto alla vendetta e alla rappresaglia. Egli è ben vero che si lasciò trasportare soverchiamente don Diego, e che ha ecceduto i limiti di un’accusa, perchè non facea mestieri ch’egli incolpasse i morti e le acque e le biade e i nascituri ed altre minuzie che si trovano registrate. Ma concedasi ch’egli abbia dirittamente proceduto (per la ragione che quando la collera sormonta non ha freno e governo la lingua) essendochè se un solo non può affrontare un regno, una provincia, una città, una repubblica, un popolo intero, resta chiaro che non v’è ragione di accorrere a vendicare l’accusa di un affronto, perchè in questo caso non ha ad essere tenuta per tale. Staremmo freschi, signori miei, se si ammazzassero per ogni nonnulla quelli che popolano il paese dai ragli con quelli che li deridono per questo nome. I tegamai, i cacciaiuoli, i saponai o quelli di altra razza o casato che vanno tuttodì per le bocche dei fanciulli e della gente vile sarebbero istigati da collera, non cercherebbero che vendette, ed altro non farebbero che sguainare e riporre le spade per ogni meschina briga. No no, nè a Dio piaccia nè il voglia. Gli uomini prudenti nelle ben ordinate repubbliche debbono per sole quattro cose dar di piglio all’arme, tirare la spada dal fodero e mettere a repentaglio le persone, le vite e le sostanze. La prima per la difesa della fede cattolica; la seconda per quella della vita, ch’è secondo ogni legge naturale e divina; la terza per lo proprio onore, per la propria famiglia e pei proprii [p. 259 modifica]averi; la quarta per servire il re in guerra giusta: e volendo aggiungere la quinta, che collocare potrebbesi per seconda, per difesa della propria patria. A queste cause altre aggregarsi possono che sieno giuste e ragionevoli, e che ci obblighino a prendere le armi: ma il pigliarle per cose frivole è più da riso e da sollazzo che di disonore e di affronto, egli è un mancare di buono discernimento. Il fare una vendetta ingiusta (chè non si dà giusta vendetta), è direttamente contrario alla santa legge che professiamo: legge che ci comanda di far bene ai nostri nemici, di portar amore a chi ci odia; legge che quantunque ci sembri un po’ dura da osservarsi, tale non è però se non per coloro che Dio pospongono al mondo e lo spirito alla carne; e ricordatevi che il nostro Salvatore, vero Iddio e vero uomo, ed esempio di verità immancabile, essendo [p. 260 modifica]nostro legislatore, disse che leggiero è il suo peso e soave il suo giogo, nè ci comandò cosa che fosse impossibile eseguire. Ora, signori miei, vi sarà facile il conoscere che per le divine ed umane leggi siete obbligati a mettervi in tranquillità. — Il diavolo mi porti, disse tra sè Sancio a tal punto, se questo mio padrone non è un missionario; o se non lo è lo assomiglia come uovo ad altro uovo„. Prese un po’ di fiato don Chisciotte, e vedendo che tuttavia si manteneva il silenzio, già accignevasi a tirare innanzi il suo ragionamento, e lo avrebbe fatto se non vi si fosse interposta l’acutezza di Sancio, il quale, profittando di una breve pausa prese il padrone per mano, e così disse: — Il mio signor don Chisciotte della Mancia, che si chiamò un tempo il cavaliere dalla Trista figura, e che chiamasi adesso il cavaliere dai Leoni, è un cittadino di gran giudizio che sa di latino e di volgare quanto un baccelliere, e in ogni cosa che tratta e consiglia procede come soldato bravissimo, e tiene sulla cima delle dita tutte le leggi e le ordinanze di ciò che si chiama duello. Non si ha dunque a far altro se non quel tanto che predica; e tolgo sopra di me ogni male che potesse nascere. E poi perchè non si dovrà ascoltarlo se ha dimostrato ch’è una vera balordaggine l’entrare in valigia per causa del raglio di un asino? Io mi ricordo bene che quando ero giovane io ragliavo ogni volta che me ne venia fantasia, e non vi era chi mi togliesse la mano; e lo facevo con sì bella grazia e proprietà che appena finito il mio raglio, ragliavano tutti gli asini del paese: ma per questo non cessavo d’esser figlio dei miei genitori, ch’erano onoratissimi; e quantunque la mia virtù promovesse l’invidia di alquanti dottoroni del mio paese, io non me ne davo per inteso. Perchè si vegga che io dico la verità, aspettino e ascoltino; chè questa scienza è come quella del nuotare; imparata una volta non si scorda mai più„. E portata sul momento la mano al naso, cominciò a ragliare così sonoramente che tutte le circonvicine valli ne rimbombarono. Uno di quelli che gli stavano accanto pensò che volesse beffarsi della sua fazione, e subito alzata una grossa e lunga pertica che teneva in mano, gli diè un colpo sì terribile che il povero Sancio senza potersene in modo alcuno schermire stramazzò. Don Chisciotte, che lo vide così malconcio, andò con la lancia sopra mano ad investire l’assalitore, ma tanti furono quelli che si frapposero che non potè vendicarlo, ed accorgendosi che gli diluviava già addosso un nugolo di pietre, e ch’era minacciato da mille frecce e da non minore quantità di archibugi, voltò la briglia a Ronzinante, e a quanto galoppo potè scappò dalle mani dei nemici, raccomandandosi a Dio di tutto cuore perchè lo facesse uscire libero da tanto pericolo. Temeva ad ogni [p. 261 modifica]passo che qualche palla non gli entrasse dalla schiena e gli uscisse pel petto, e a ogni poco raccoglieva il fiato per timore che non gli mancasse; ma intanto quelli dallo squadrone ristettero dal tirargli sopra, contenti di vederlo fuggire. Appena poi che Sancio ritornò in sè lo caricarono sopra il suo asino e lo lasciarono seguitare il padrone, non perchè foss’egli in caso di guidare da sè stesso la bestia, ma perchè essa si mise spontanea sulle orme di Ronzinante [p. 262 modifica]con cui era solita convivere. Essendosi don Chisciotte allontanato buon tratto di strada, voltò la testa e vide che Sancio lo seguitava, e lo stette aspettando, poichè si accorse che non era più inseguito. Stettero fermi nel campo quelli dello squadrone perchè li colse la notte, e perchè non erano usciti in battaglia i loro avversarii, e nella mattina seguente festosi e lieti se ne tornarono al loro paese. Se avessero sapute le costumanze dei Greci antichi avrebbero in quel luogo e in quel sito innalzato un sontuoso trofeo.