Don Chisciotte della Mancia/Al lettore

Al lettore

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Prologo
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AL LETTORE





OO
gni nazione conosce e venera il nome di Michele Cervantes; ma la storia di questo uomo tanto famoso è rimasta lungamente ignorata, nè ancora può dirsi conosciuta del tutto. Ultimamente Luigi Viardot premise alla sua bella traduzione francese del don Chisciotte una Notizia sulla vita e sulle opere di Michele Cervantes, che per l’abbondanza dei fatti e la giustezza delle osservazioni, di gran lunga si lascia addietro ciò che sopra questa materia era stato scritto finora. Dobbiamo alla traduzione del Viardot molte correzioni introdotte nella presente ristampa; ed ora trarremo dalla sua dotta prefazione quanto i lettori possono desiderar di sapere intorno all’autore ed al libro: dei quali come sarebbe impossibile a noi raccogliere più copiose notizie di quelle ch’egli adunò, così sarebbe presontuoso arrogarsi di giudicarne meglio di lui.

Otto città si disputarono l’onore di aver dato alla Spagna Michele Cervantes; ma ora è consentito da tutti ch’egli nacque in Alcala de Henares il 9 ottobre 1547. Fu nella sua prima giovinezza studiosissimo, e attese con amore non meno che con felicità alla poesia. Ma la povertà l’obbligò assai presto a sospendere [p. vi modifica] la coltura dell’ingegno, e le sventure non gli permisero di ritornare se non molto tardi a’ diletti suoi studi. Nel 1568 s’acconciò come cameriere col cardinale d’Acquaviva, che si trovava in Madrid; e venne con lui a Roma quando Filippo II fece intimare a quel prelato di abbandonar immediatamente la Spagna. Ma poco durò il Cervantes in quella condizione; che già nel 1569 lo troviamo arruolato nelle milizie spagnuole, che allora occupavano una parte d’Italia. Intervenne quindi alla famosa battaglia di Lepanto, e n’ebbe due ferite nel petto, ed una nella mano sinistra della quale fu storpio per tutta la sua vita.

Sei anni durò quella prima milizia; poi nei 1578 il Cervantes ottenne la permissione di ritornare nella Spagna, ancora semplice soldato, storpio e indebolito da tre campagne, senz’altro frutto fuorchè la cognizione della letteratura italiana, e la memoria di quanto avea veduto in Firenze, in Venezia, in Roma, e nelle altre principali nostre città. Sperava che i servigi prestati e l’ingegno gli dovessero aprir la via a qualche prosperità presso la Corte; ma la fortuna gli tolse di farne sperienza. Imbarcatosi a Napoli, fu colto in mare dai pirati, e condotto con un suo fratello in Algeri, dove stette schiavo cinque anni. Quello ch’egli patì, e quello che fece nel tempo della sua cattività per liberare sè stesso e i suoi compagni dalla miseria e dall’avvilimento in cui eran tenuti si trova quasi tutto descritto nella novella del Capitano Prigioniero nella prima parte del Don Chisciotte. Qui vuolsi aggiungere solo che in tutte quelle prove infelici il suo ingegno e il suo cuore mostrarono sempre la vera loro eccellenza, e gli acquistarono anche fra i Barbari una specie di riverenza che lo preservò dal provarne quella vendetta a cui soggiacquero gli altri. Hassan-Agà (rinnegato veneziano, ed allora dey d’Algeri), che verso la fine del 1577 aveva comperato il Cervantes dal suo primo padrone, soleva dire: “Quand’io abbia in sicura custodia quello storpio dello Spagnuolo, non ho più alcun pensiero nè della città, nè degli schiavi, nè delle galere„. Ma questa stima medesima in cui era tenuto gli nocque; perocchè stimandolo persona di grande affare, fu posto al suo riscatto sì alto prezzo, che riusciva impossibile liberarlo. Il padre quand’ebbe notizia della prigionia in cui eran caduti i suoi figli, non esitò a vendere quanto aveva per riscattarli; ma il danaro inviato non appagò l’avidità di quei Barbari, e Michele Cervantes fu contento che s’impiegasse alla liberazione di suo fratello. All’ultimo poi egli riebbe la sua libertà nel 1580, e ne fu debitore principalmente al P. Giovanni Gil, procurator generale dell’Ordine della Santa Trinità, il quale attese con grandissima cura a raccogliere dalla carità di molti privati la somma occorrente.

Non finirono con quella schiavitù le sventure del nostro autore. Innanzi tutto la povertà l’obbligò ad arruolarsi nuovamente soldato; nè la fortuna volle essergli più propizia di prima in quella carriera. Egli non ottenne alcun grado nella milizia, ma ne uscì semplice soldato, benchè resti memoria di molti importanti servigi da lui prestati.

Nel 1584 egli avea sposata donna Catalina de Palacios Salazar della piccola città d’Equivias, ed ivi stette per qualche tempo colla moglie nobile ma povera, e con una figliuoletta naturale avuta già prima da una dama di Lisbona. A quel tempo egli avea già pubblicata la Galatea, novella pastorale, la cui eroina è appunto la giovine che diventò poi sua sposa. La naturale inclinazione e il bisogno [p. vii modifica] da accrescer in qualche modo le scarse sue rendite lo persuasero dopo il matrimonio a ripigliare gli studi per tanti anni negletti, e scrisse alcune opere teatrali che lungamente perdute, e poi in parte trovate, non corrispondono nè all’altezza di tanto ingegno, nè alla compiacenza con cui il Cervantes stesso ne parla. La grande riputazione acquistata da Lope de Vega, che con prodigiosa fecondità empiè dalle sue produzioni tutti i teatri spagnuoli, tolsero al Cervantes i proventi che si procacciava per questa via. Bisognò dunque cercarsi un qualche impiego, e ottenne di essere uno dei quattro commissarii che sotto gli ordini di Antonio de Guevara doveano vettovagliare l’invincibile armada. Per dieci anni stette a Siviglia in siffatte occupazioni tanto sconvenienti al suo ingegno, e tanto discordi dalle sue inclinazioni. Pur fu in quegli anni che il Cervantes compose le sue Novelle, le quali dopo il Don Chisciotte sono tenute le sue migliori produzioni.

Quando nel 1596 egli uscì di quell’impiego che già si poteva considerare come una sventura per lui, la fortuna gli apparecchiò una sventura molto più grave. Accusato di essersi appropriato il pubblico danaro, fu tenuto prigione, e benchè provasse evidentemente la sua innocenza, nondimeno si trova che anche alcuni anni dopo fu nuovamente processato per la miserabile somma di duemila seicento quarant’uno reali.

I biografi non ci danno la notizia del Cervantes dal 1598 al 1603, in cui dopo il secondo processo, riconosciuto innocente, andò alla corte di Filippo III in Vagliadolid; se non che in quel periodo di tempo s’accordano a dire ch’egli compose quasi intieramente la prima parte del Don Chisciotte; e credono che passasse quegli anni in qualche borgo della Mancia, della quale descrisse così bene e i luoghi e i costumi nel suo famoso romanzo. Egli dice nel Prologo che quel suo libro, quel figlio del suo intelletto, fu generato in una prigione; ma quando, o perchè soggiacesse a tal prigionia è cosa tuttora ignorata.

Quando dopo tutte queste peripezie il Cervantes nel 1603 comparve alla corte, cioè alla residenza del re, si trovò come in paese straniero, non conosciuto nè dal principe nè dai suoi favoriti: i vecchi amici erano o morti o dispersi; egli già quasi vecchio mal poteva sperare di procacciarsene di nuovi. Il duca di Lorena, potentissimo a quella corte, lo ricevette orgogliosamente; ed egli dopo d’allora si rassegnò a vivere nella mediocrità coi proventi dell’ingegno e di qualche amministrazione di affari, e coi soccorsi di due protettori, il conte di Lemos e l’arcivescovo di Toledo.

Nel principio del 1605 pubblicò la prima parte del Don Chisciotte. Sulle prime non fu compreso, ma egli medesimo diede fuori col titolo di Buscapiè un libretto anonimo, dove sotto l’apparenza di una censura fece conoscere il vero scopo del libro e le sue allusioni. Allora tutti vollero leggerlo, e fu ristampato ben quattro volte nello stesso anno 1605. Se l’invidia non lasciò illeso l’autore di un’opera divenuta tanto famosa, poteva nondimeno il Cervantes, in quanto alla gloria, contentarsi dell’esito; ma non erano ancora finite le sventure che dovevano amareggiargli la vita. La notte de’ 26 giugno di quel medesimo anno, un cavaliere, don Gaspare de Espeleta, ferito da uno sconosciuto, si ricoverò nella casa dove abitava il Cervantes, e quivi morì. Fu creduto che all’uccisione avesse dato origine un intrigo amoroso colla figlia o con una nipote del [p. viii modifica] Cervantes; e il giudice ordinò ch’egli con tutta la famiglia fosse arrestato; nè bisognarono meno di otto o dieci giorni a somministrare tutte le richieste giustificazioni.

Dopo quest’avventura si crede che il nostro autore nel 1606 seguitasse la corte a Madrid; si conoscono almeno le vie di quella città nelle quali abitò dal 1609 fino al 1616, che fu l’ultimo della sua vita. Povero e dimenticato, mentre altri tanto men degni di lui avevano le onorevoli cariche e le larghe pensioni, attese nel silenzio a’ suoi studi, cominciando da una nuova edizione del Don Chisciotte che servì poi di esemplare a tutte le susseguenti. E già aveva annunziata la seconda parte di quell’opera, quanto, verso la metà dell’anno 1614, un ignoto, che prese il nome di Alonzo Fernandez de Avellaneda, nativo di Tordesilla, lo prevenne, mandando alle stampe una pretesa continuazione del Don Chisciotte. Si crede che il vero autore fosse un Aragonese, frate dell’Ordine dei Predicatori. Questa incredibile audacia ebbe dal Cervantes il suo degno castigo: l’intruso continuatore apparve un miserabile ingegno quando fu pubblicata la vera continuazione nell’ottobre del 1615. Ma l’egregio autore, già vecchio, infelice ed infermo, sopravvisse sol pochi mesi, e morendo il 23 aprile 1616 non potè nè godere la lode dei contemporanei, nè conoscere di quanta gloria si circonderebbe il suo nome nei secoli avvenire.

Il Don Chisciotte tenuto dagli Spagnuoli come un vero modello di stile fu tradotto in tutte le lingue, ed anche spogliato delle bellezze native, trovò da pertutto ed in ogni tempo una costante ammirazione. Come opera di fantasia, è si ricca e si varia, che non cede al confronto di verun’altra. Come opera scritta per conseguire un fine, essa lo ha conseguito sì bene, che i Romanzi di cavalleria contro i quali adoperavansi indarno i moralisti e le leggi, disparvero onninamente. Il Viardot è d’opinione che il Cervantes da prima si fosse proposto solo di deridere la lettura cavalleresca, ma che poi sopra lavoro e principalmente nella seconda parte allargasse il suo disegno a quell’ampiezza a cui lo vediamo condotto. Vi sono molte ragioni per credere che questa opinione sia vera: il certo si è che l’opera del Cervantes, il cui principio promette null’altro che una lettura piacevole od una vivace derisione dei romanzi cavallereschi, abbraccia di poi argomenti di alta importanza, e li tratta con tanta cognizione, assennatezza, evidenza e giovialità, da congiungere in sommo grado l’utilità col diletto, e riuscire gradita ad ogni classe di leggitori.