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la coltura dell’ingegno, e le sventure non gli permisero di ritornare se non molto tardi a’ diletti suoi studi. Nel 1568 s’acconciò come cameriere col cardinale d’Acquaviva, che si trovava in Madrid; e venne con lui a Roma quando Filippo II fece intimare a quel prelato di abbandonar immediatamente la Spagna. Ma poco durò il Cervantes in quella condizione; che già nel 1569 lo troviamo arruolato nelle milizie spagnuole, che allora occupavano una parte d’Italia. Intervenne quindi alla famosa battaglia di Lepanto, e n’ebbe due ferite nel petto, ed una nella mano sinistra della quale fu storpio per tutta la sua vita.
Sei anni durò quella prima milizia; poi nei 1578 il Cervantes ottenne la permissione di ritornare nella Spagna, ancora semplice soldato, storpio e indebolito da tre campagne, senz’altro frutto fuorchè la cognizione della letteratura italiana, e la memoria di quanto avea veduto in Firenze, in Venezia, in Roma, e nelle altre principali nostre città. Sperava che i servigi prestati e l’ingegno gli dovessero aprir la via a qualche prosperità presso la Corte; ma la fortuna gli tolse di farne sperienza. Imbarcatosi a Napoli, fu colto in mare dai pirati, e condotto con un suo fratello in Algeri, dove stette schiavo cinque anni. Quello ch’egli patì, e quello che fece nel tempo della sua cattività per liberare sè stesso e i suoi compagni dalla miseria e dall’avvilimento in cui eran tenuti si trova quasi tutto descritto nella novella del Capitano Prigioniero nella prima parte del Don Chisciotte. Qui vuolsi aggiungere solo che in tutte quelle prove infelici il suo ingegno e il suo cuore mostrarono sempre la vera loro eccellenza, e gli acquistarono anche fra i Barbari una specie di riverenza che lo preservò dal provarne quella vendetta a cui soggiacquero gli altri. Hassan-Agà (rinnegato veneziano, ed allora dey d’Algeri), che verso la fine del 1577 aveva comperato il Cervantes dal suo primo padrone, soleva dire: “Quand’io abbia in sicura custodia quello storpio dello Spagnuolo, non ho più alcun pensiero nè della città, nè degli schiavi, nè delle galere„. Ma questa stima medesima in cui era tenuto gli nocque; perocchè stimandolo persona di grande affare, fu posto al suo riscatto sì alto prezzo, che riusciva impossibile liberarlo. Il padre quand’ebbe notizia della prigionia in cui eran caduti i suoi figli, non esitò a vendere quanto aveva per riscattarli; ma il danaro inviato non appagò l’avidità di quei Barbari, e Michele Cervantes fu contento che s’impiegasse alla liberazione di suo fratello. All’ultimo poi egli riebbe la sua libertà nel 1580, e ne fu debitore principalmente al P. Giovanni Gil, procurator generale dell’Ordine della Santa Trinità, il quale attese con grandissima cura a raccogliere dalla carità di molti privati la somma occorrente.
Non finirono con quella schiavitù le sventure del nostro autore. Innanzi tutto la povertà l’obbligò ad arruolarsi nuovamente soldato; nè la fortuna volle essergli più propizia di prima in quella carriera. Egli non ottenne alcun grado nella milizia, ma ne uscì semplice soldato, benchè resti memoria di molti importanti servigi da lui prestati.
Nel 1584 egli avea sposata donna Catalina de Palacios Salazar della piccola città d’Equivias, ed ivi stette per qualche tempo colla moglie nobile ma povera, e con una figliuoletta naturale avuta già prima da una dama di Lisbona. A quel tempo egli avea già pubblicata la Galatea, novella pastorale, la cui eroina è appunto la giovine che diventò poi sua sposa. La naturale inclinazione e il bisogno