Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio (1824)/Libro secondo/Capitolo 23

Libro secondo

Capitolo 23

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Quanto i Romani
nel giudicare i sudditi
per alcuno accidente che necessitasse
tale giudizio
fuggivano la via del mezzo.

«Iam Latio is status erat rerum, ut neque pacem neque bellum pati possent». Di tutti gli stati infelici, è infelicissimo quello d’uno principe o d’una republica che è ridotto in termine che non può ricevere la pace o sostenere la guerra: a che si riducono quegli che sono dalle condizioni della pace troppo offesi; e dall’altro canto, volendo fare guerra, conviene loro o gittarsi in preda di chi gli aiuti o rimanere preda del nimico. Ed a tutti questi termini si viene, pe’ cattivi consigli e cattivi partiti, da non avere misurato bene le forze sue, come di sopra si disse. Perché quella republica o quel principe che bene le misurasse, con difficultà si condurrebbe nel termine si condussono i Latini: i quali, quando non dovevano accordare con i Romani, accordarono; e quando ei non dovevano rompere loro guerra, la ruppono: e così seppono fare in modo, che la inimicizia ed amicizia de’ Romani fu loro equalmente dannosa. Erano, dunque, vinti i Latini ed al tutto afflitti, prima da Manlio Torquato, e dipoi da Cammillo: il quale, avendogli costretti a darsi e rimettersi nelle braccia de’ Romani, ed avendo messo la guardia per [p. 22 modifica]tutte le terre di Lazio, e preso da tutte gli statichi; tornato in Roma, referì al Senato come tutto Lazio era nelle mani del Popolo romano. E perché questo giudizio è notabile, e merita di essere osservato, per poterlo imitare quando simili occasioni sono date a’ principi, io voglio addurre le parole di Livio, poste in bocca di Cammillo; le quali fanno fede e del modo che i Romani tennono in ampliare, e come ne’ giudizi di stato sempre fuggirono la via del mezzo, e si volsono agli estremi. Perché uno governo non è altro che tenere in modo i sudditi che non ti possano o debbano offendere: questo si fa o con assicurarsene in tutto, togliendo loro ogni via da nuocerti, o con benificarli in modo, che non sia ragionevole ch’eglino abbiano a desiderare di mutare fortuna. Il che tutto si comprende, e prima per la proposta di Cammillo, e poi per il giudizio dato dal Senato sopra quella. Le parole sue furono queste: «Dii immortales ita vos potentes huius consilii fecerunt, ut, sit Latium an non sit, in vestra manu posuerint. Itaque pacem vobis, quod ad Latinos attinet, parare in perpetuum, vel saeviendo vel ignoscendo potestis. Vultis crudelius consulere in dedititios victosque? licet delere omne Latium. Vultis, exemplo maiorum, augere rem romanam, victos in civitatem accipiendo? materia crescendi per summam gloriam suppeditat. Certe id firmissimum imperium est, quo obedientes gaudent. Illorum igitur animos, dum expectatione stupent, [p. 23 modifica]seu poena seu beneficio praeoccupari oportet». A questa proposta successe la diliberazione del Senato: la quale fu secondo le parole del Consolo, che, recatosi innanzi, terra per terra, tutti quegli ch’erano di momento, o e’ gli benificarono o e’ gli spensono, faccendo ai beneficati esenzioni, privilegi, donando loro la città, e da ogni parte assicurandogli; di quegli altri sfasciarono le terre, mandoronvi colonie, ridussongli in Roma, dissiparongli talmente che con l’armi e con il consiglio non potevono più nuocere. Né usarono mai la via neutrale in quelli, come ho detto, di momento. Questo giudizio debbono i principi imitare. A questo dovevano accostarsi i Fiorentini, quando nel 1502 si ribellò Arezzo, e tutta la Val di Chiana: il che se avessono fatto, arebbero assicurato lo imperio loro, e fatto grandissima la città di Firenze, e datogli quegli campi che per vivere gli mancono. Ma loro usorono quella via del mezzo, la quale è dannosissima nel giudicare gli uomini; e parte degli Aretini confinarono, parte ne condennarono; a tutti tolsono gli onori e gli loro antichi gradi nella città; e lasciarono la città intera. E se alcuno cittadino nelle diliberazioni consigliava che Arezzo si disfacesse; a quegli che pareva essere più savi, dicevano come e’ sarebbe poco onore della republica disfarla, perché e’ parrebbe che Firenze mancasse di forze da tenerli. Le quali ragioni sono di quelle che paiono e non sono vere; perché con questa medesima ragione non si arebbe a [p. 24 modifica]ad ammazzare un parricida, un scelerato, ed uno scandoloso, sendo vergogna di quel Principe mostrare di non aver forze da potere frenare un uomo solo. E non veggono questi tali, che hanno simili opinioni, come gli uomini particolarmente, ed una città tutta insieme pecca tal volta contro a uno stato, che, per esempio agli altri, per sicurtà di sé, non ha altro rimedio uno principe che spegnerla. E l’onore consiste nel potere e sapere gastigarla, non nel potere con mille pericoli tenerla: perché quel principe che non gastiga chi erra, in modo che non possa più errare, è tenuto o ignorante o vile. Questo giudizio che i Romani dettero, quanto sia necessario si conferma ancora per la sentenza che dettero de’ Privernati. Dove si debbe, per il testo di Livio, notare due cose: l’una, quello che di sopra si dice, ch’e’ sudditi si debbono o benificare o spegnere: l’altra, quanto la generosità dell’animo, quanto il parlare il vero giovi, quando egli è detto nel conspetto di uomini prudenti. Era ragunato il Senato romano per giudicare de’ Privernati, i quali, sendosi ribellati, erano di poi per forza ritornati sotto la ubbidienza romana. Erano mandati dal popolo di Priverno molti cittadini per impetrare perdono dal Senato; ed essendo venuti al conspetto di quello, fu detto a uno di loro da uno de’Senatori, Quam poenam meritos Privernates censeret. Al quale il Privernate rispose: Eam, quam merentur qui se libertate dignos censent. Al quale il Consolo replicò: « [p. 25 modifica]Quid si poenam remittimus vobis, qualem nos pacem vobiscum habituros speremus?». A che quello rispose: «Si bonam dederitis, et fidelem et perpetuam, si malam, haud diuturnam». Donde la più savia parte del Senato, ancora che molti se ne alterassono, disse: «se audivisse vocem et liberi et viri; nec credi posse ullum populum, aut hominem, denique in ea conditione cuius eum poeniteat diutius quam necesse sit, mansurum. Ibi pacem esse fidam, ubi voluntarii pacati sint, neque eo loco ubi servitutem esse velint, fidem sperandam esse». Ed in su queste parole, deliberarono che i Privernati fossero cittadini romani, e de’ privilegi della civilità gli onorarono, dicendo: «eos demum qui nihil praeterquam de libertate cogitant, dignos esse, qui Romani fiant». Tanto piacque agli animi generosi questa vera e generosa risposta; perché ogni altra risposta sarebbe stata bugiarda e vile. E coloro che credono degli uomini altrimenti, massime di quegli che sono usi o a essere o a parere loro essere liberi, se ne ingannono; e sotto questo inganno pigliano partiti non buoni per sé, e da non satisfare a loro. Di che nascano le spesse ribellioni, e le rovine degli stati. Ma per tornare al discorso nostro, conchiudo, e per questo e per quel giudizio dato de’ Latini: quando si ha a giudicare cittadi potenti e che sono use a vivere libere, conviene o spegnerle o carezzarle; altrimenti, ogni giudizio è vano. E debbesi fuggire al tutto la via del mezzo, la quale è dannosa, come la fu ai Sanniti [p. 26 modifica]quando avevano rinchiusi i Romani alle Forche Gaudine; quando non vollero seguire il parere di quel vecchio, che consigliò che i Romani si lasciassero andare onorati, o che si ammazzassero tutti; ma pigliando una via di mezzo, disarmandogli e mettendogli sotto il giogo, gli lasciarono andare pieni d’ignominia e di sdegno. Talché poco dipoi conobbono con loro danno la sentenza di quel vecchio essere stata utile, e la loro diliberazione dannosa: come nel suo luogo più a pieno si discorrerà.