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ad ammazzare un parricida, un scelerato, ed uno scandoloso, sendo vergogna di quel Principe mostrare di non aver forze da potere frenare un uomo solo. E non veggono questi tali, che hanno simili opinioni, come gli uomini particolarmente, ed una città tutta insieme pecca tal volta contro a uno stato, che, per esempio agli altri, per sicurtà di sé, non ha altro rimedio uno principe che spegnerla. E l’onore consiste nel potere e sapere gastigarla, non nel potere con mille pericoli tenerla: perché quel principe che non gastiga chi erra, in modo che non possa più errare, è tenuto o ignorante o vile. Questo giudizio che i Romani dettero, quanto sia necessario si conferma ancora per la sentenza che dettero de’ Privernati. Dove si debbe, per il testo di Livio, notare due cose: l’una, quello che di sopra si dice, ch’e’ sudditi si debbono o benificare o spegnere: l’altra, quanto la generosità dell’animo, quanto il parlare il vero giovi, quando egli è detto nel conspetto di uomini prudenti. Era ragunato il Senato romano per giudicare de’ Privernati, i quali, sendosi ribellati, erano di poi per forza ritornati sotto la ubbidienza romana. Erano mandati dal popolo di Priverno molti cittadini per impetrare perdono dal Senato; ed essendo venuti al conspetto di quello, fu detto a uno di loro da uno de’Senatori, Quam poenam meritos Privernates censeret. Al quale il Privernate rispose: Eam, quam merentur qui se libertate dignos censent. Al quale il Consolo replicò: «