Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio (1824)/Libro primo/Capitolo 45

Libro primo

Capitolo 45

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CAPITOLO XLV


È cosa di malo esempio il non osservare una legge fatta, e massime dallo autore di essa; e rinfrescare ogni dì nuove ingiurie in una Città, è a chi la governa dannosissimo.


Seguito l’accordo, e ridotta Roma nell’antica sua forma, Virginio citò Appio innanzi al Popolo a difendere la sua causa. Quello comparse accompagnato da molti Nobili. Virginio comandò che fusse messo in prigione. Cominciò Appio a gridare, ed appellare al Popolo: Virginio diceva che non era degno d’avere quella appellazione ch’ egli aveva distrutta, ed avere per difensore quel Popolo [p. 155 modifica]ch’egli aveva offeso: Appio replicava, come e’ non avevano a violare quella appellazione ch’egli avevano con tanto desiderio ordinata. Pertanto egli fu incarcerato, e avanti al dì del giudizio ammazzò sè stesso. E benchè la scellerata vita d’Appio meritasse ogni supplicio, nondimeno fu cosa poco civile violare le leggi, e tanto più quella ch’era fatta allora. Perchè io non credo che sia cosa di più cattivo esempio in una Repubblica, che fare una legge e non la osservare, e tanto più, quanto la non è osservata da chi l’ha fatta. Essendo Firenze dopo il novantaquattro stata riordinata nel suo Stato con l’ajuto di frate Girolamo Savonarola, gli scritti del quale mostrano la dottrina, la prudenza, la virtù dell’animo suo, ed avendo tra l’altre costituzioni per assicurare i cittadini fatto fare una legge, che si potesse appellare al Popolo dalle sentenze che per caso di Stato gli Otto e la Signoria dessero, la qual ‘legge persuase più tempo, e con difficultà grandissima ottenne, occorse che poco dopo la confirmazione d’essa, furono condannati a morte dalla Signoria per conto di Stato cinque cittadini, e volendo quelli appellare, non furono lasciati, e non fu osservata la legge. Il che tolse più riputazione a quel Frate, che nessun altro accidente; perchè se quella appellazione era utile, ei doveva farla osservare; s’ella non era utile, non doveva farla vincere. E tanto più fu notato questo accidente, quanto che il Frate in tante predicazioni che fece, poi che fu rotta questa legge, [p. 156 modifica]non mai o dannò chi l’aveva rotta, o lo scusò; come quello che dannare non la voleva come cosa che gli tornava a proposito, e scusare non la poteva. Il che avendo scoperto l’animo suo ambizioso e partigiano, gli tolse riputazione, e dettegli assai carico. Offende ancora uno stato assai, rinfrescare ogni dì nello animo de’ tuoi cittadini nuovi umori per nuove ingiurie che a questo e quello si facciano: come intervenne a Roma dopo il Decemvirato. Perché tutti i Dieci, ed altri cittadini in diversi tempi, furono accusati e condennati; in modo che gli era uno spavento grandissimo in tutta la Nobilità, giudicando che e’ non si avesse mai a porre fine a simili condennagioni, fino a tanto che tutta la Nobilità non fusse distrutta. Ed arebbe generato, in quella città, grande inconveniente, se da Marco Duellio tribuno non vi fusse stato proveduto; il quale fece uno editto, che per uno anno non fusse lecito a alcuno citare o accusare alcuno cittadino romano: il che rassicurò tutta la Nobilità. Dove si vede quanto sia dannoso a una republica o a un principe, tenere con le continove pene ed offese sospesi e paurosi gli animi de’ sudditi. E sanza dubbio non si può tenere il più pernizioso ordine: perché gli uomini che cominciono a dubitare di avere a capitare male, in ogni modo si assicurano ne’ pericoli, e diventono più audaci, e meno respettivi a tentare cose nuove. Però è necessario o non offendere mai alcuno, o fare le offese a un tratto: e dipoi rassicurare gli uomini, e dare loro cagione di quietare e fermare l’animo.