Discorsi della Società Nazionale per la Confederazione Italiana/Carutti
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- Signori,
L’ora tarda e l’universale commozione degli spiriti m’impongono il debito della brevità; di che io debbo meco stesso rallegrarmi, poichè se dapprima io tolsi volenteroso l’incarico di parlare, conchiudendo, in quest’adunanza, ora, al cospetto di così eletta e numerosa assemblea, dopo gli eloquenti oratori che mi hanno preceduto, mi accingerei trepidando a tessere lungo ed improvviso ragionamento.
Io mi restringerò pertanto a ringraziarvi in nome della nascente Società della Confederazione italiana; colla vostra presenza, col vostro consenso voi avvalorate l’idea di cui il Comitato centrale si fece promotore e propugnatore; colla vostra presenza, col vostro consenso voi approvate il modo ond’egli crede di assecurarne il trionfo. Torino comprese che altra è la vita de’ popoli liberi, altra quella dei popoli addormentati nelle servili preoccupazioni. Presso questi ultimi ogni cosa che abbia del nuovo appare stranezza, e tanto e così fatto è il costoro ritroso pudore che dispettano ogni libera corrispondenza colle moltitudini. Ma non in tal guisa usano le nazioni provette nelle civili franchigie, dove gli uomini che si fanno duci di un’idea ricorrono direttamente là dove è la sorgente della vita, ricorrono al popolo, e non mai si conciliano tanta autorità, se non allorchè dopo avere scosso colla possente loro voce i severi parlamenti, discendono nei popolari comizi, e la folla assembrata negli aperti campi o nei pubblici edifizii traggono nei loro concetti, chiamandola a palpitare del loro palpito, a fremere del loro fremito, a vivere della propria loro vita.
Ed a voi, o Signori, ricorre spontaneo al labbro il nome venerando di Daniele O’Connell e quello di Riccardo Cobden; uomini che colle leve delle politiche associazioni operarono quei grandi rivolgimenti che segnano un’epoca nella storia della nazioni. Rammentate voi le innumerevoli turbe che sui colli della verde Erina affamate, cenciose, conculcate, prive persino della facoltà d’invocare liberamente Iddio con quella religione che avevano dai padri redata, domandavano al loro profeta il ristauro dei loro più sacri diritti? Ricordate voi Riccardo Cobden il quale colla lega per i cereali diede forse il più vivo colpo alla britanna aristocrazia che tra poco vedrà crollare il putrido suo edifizio, se pure il dito di Dio non si ritorce dalla faccia della terra?
Ed è questa una mirabile prerogativa del genio italiano, il quale nelle opere di civiltà, quantunque combattuto, avversato dai principi, combattuto, avversato dai governi, quando riprende il naturale suo slancio, raggiunge, direi, in un subito gli adulti suoi predecessori. E questa eletta, questa numerosa assemblea la quale afforza un pensiero che era nel cuore di tutti e col suo assenso dà efficacia alla novella maniera di farla trionfare, sarà per gli stranieri grande argomento di lode verso l’Italia.
Io vi ho ricordate le magnanime imprese di O’Connell e di Cobden; ma quelle a cui la Società federativa si accinge, di tanto prevale sopra le irlandesi e britanniche agitazioni, quanto sovra un provvedimento economico e sopra una politica guarentigia maggioreggia il fatto di una infelicissima nazione che vuole raccogliere in un solo corpo le sparse e divulse sue membra, stringere in un patto comune i destini delle diverse sue province, e in tal forma ricomposta ricuperare quell’indipendenza, quella signoria di se stessa, senza cui e libertà e permanenti istituzioni sono un vano nome, un’illusione funesta.Quale fu, o Signori, la condizione d’Italia, quale è in questo momento stesso? L’Italia dopo quella generale conflagrazione europea, che sullo scorcio dell’ultimo secolo cambiò le sorti d’Europa e v’infuse uno spirito novello, l’Italia corse i destini di un’altra nazione e aggiogata al medesimo carro precipitò nella medesima ruina. Allo sfasciarsi dell’Impero, sopra l’Italia si chiuse la pietra sepolcrale, e per lei non apparve più segno di vita. I progressi fatti sotto le dominazione francese, tornarono sospetti ai reduci regnatori; ne vollero distrutte perfino le vestigia.
Questa terra destinata dalla natura e dai cieli a belle e magnanime intraprese, dovette soffocare il proprio genio, dovette ripudiare la gloria e gli esempli del suo maraviglioso passato, dovette consumare il suicidio. Non vita pubblica, non vita intellettuale, nessun nobile o ardimentoso slancio concesso; che se talvolta qualche sdegnoso scoteva le catene, gli insanguinati patiboli annunziavano al mondo che l’ordine era ristabilito.
Questa era la nostra sorte, nessun comune intendimento avvicinava i gementi che aveano pur tutti uno stesso volere; e il poeta varcando le alpi e visitando i nostri monumenti e gli archi maestosi dei tempi che furono, pensando all’antica grandezza, attonito del presente silenzio, tra pietoso e beffardo di noi cantava: quella è la terra dei morti. E lo straniero oppressore che vigilava e temeva dicea a’ potenti: l’Italia è un’espressione geografica. Ma costoro guardavano alla superficie; l’idea viveva nelle viscere della patria italiana, lo spirito infiammava il cuore de’ suoi figli; e questa terra di morti, questa espressione geografica sorse in un giorno tremenda e l’Europa dovette rispettarla; e sui campi di Lombardia si seppe come pugnassero le braccia nostre, come tagliasse il ferro italiano.
Pure quello non era sforzo di nazione; era impeto di popoli disgregati; alla volontà comune mancava l’armonìa dei governi. Vedemmo principi, i quali apparentemente cominciarono a secondare l’impresa, stogliersi da essa appena ne ebbero il destro; vedemmo schiere animose combattere quasi guerriglie, o antiche compagnie di ventura. Mancava un punto a cui convergessero tutte le forze; mancava un centro in cui tutti i raggi venissero ad unificarsi. Più manifesta allora si chiariva la necessità di unire la penisola.
Due scuole tendono a questo supremo scopo; l’una avvezza, direi, a disdegnare i fatti positivi, quei fatti che si fondano e sulle tradizioni del passato e sulle esigenze del presente; fissa in un grande, in un sublime divisamento, dispregia o non cura gli ostacoli, confida di signoreggiare i risultanti elementi che ha sotto mano; questa scuola ideale vagheggia l’Italia una, l’Italia retta da una sola mente sovrana o di principe o di popolo, l’Italia assisa nel primiero suo seggio, circondata di splendore e di potenza sovra le altezze della città eterna. E questo veramente io lo credo l’ultimo termine a cui debbano giungere le nazionalità; le altre fasi non sono che trapassi, non sono che le evoluzioni onde le società che si ricompongono, attingono quell’ultima meta. L’unità soltanto le costituisce nel loro essere pieno; mediante quest’unità soltanto l’Inghilterra diventò signora dei mari; e mediante l’unità soltanto potè la Francia nell’impeto della disperazione trarre dal suo seno quattordici armate, e gettarle alle frontiere contro l’Europa coalizzata e rintuzzare e vincere le rabbie dei congiurati tiranni.
Questa è la meta, ma chi volesse attuare oggi un tale ordine di cose, grave nocumento recherebbe alla causa italiana, o almeno seminerebbe, come si suol dire, sopra l’arena. Le nazioni hanno un’attitudine propria avvalorata dalle vicende della loro istoria che non si può impunemente pretermettere o violare. Quindi quella scuola che pratica si appella, ci offre un altro mezzo che a quello supremo ci approssima e ne porge molti di quei vantaggi. Questo mezzo, questa forma costitutiva si è la Confederazione. Voi avete inteso quanti e quali sono i vantaggi che da questo politico sistema possono derivare alla patria comune; udiste com’essa sia per crescerne in ricchezza e in ogni maniera di commercio e d’industria; come la sua libertà e le morali sue prerogative ne siano guarentite, e come la sua indipendenza possa agevolmente conquistarsi e sodarsi.
Ed è questo un vero in cui io credo, e che noi stessi vedremo effettuarsi se in tutta la penisola la Confederazione italica otterrà quell’accoglienza che oggi incontra nella magnanima Torino. Né io di ciò posso dubitare. La luce del vero sforza gl’intelletti più ribelli e se vi è questione non è che questione di tempo. Le grandi idee sono destinate al trionfo. Le nazioni debbono restituirsi nel loro diritto naturale; è questo il lavoro più visibile del secolo nostro. Le idee varcano i secoli ed al giorno segnato trionfano. Un esule antico guidato dal genio fuggiva dalla sua città, maladetto da’ suoi, inviso alle fazioni stesse a cui si era alleato; egli teneva alta la fronte e non piegava ai colpi dell’avversa fortuna, egli portava nel cuore il desiderio dell’Italia indipendente e regina, di misera ed ancella ch’ell’era; ma non vedeva compiersi il suo vaticinio, e dal marmo di Ravenna dove reclinava il capo moribondo, consegnava il suo concetto alle generazioni vegnenti. E molte ne scorsero ora luminose ed ora dense di tenebre. E un altro esule partiva pure dalla sua città e passava le Alpi calunniato dalle sette, lacerato dagli uomini dei sinistri pensieri; quell’uomo era povero, quell’uomo non avea nome, la sua stella non era nota che a pochi i quali erano penetrati nel sacrario dell’animo suo. E nell’esilio, nelle contrade straniere che non gli ricordavano la materna se non per piangerne le sciagure, quest’uomo meditava, pensava, scriveva. E da quei pensieri, da quelle meditazioni, da quegli scritti usciva la parola redentrice, usciva la favilla che dovea vivificare l’Italia.... (prolungati applausi).
Io non ho pronunziato il suo nome, ma voi lo avete acclamato... (nuovi applausi). Ebbene quest’esule ritornava dopo lunghi anni alla patria sua, e questa patria non era più quella che aveva lasciato tre lustri prima; non era più la terra sepolta nelle lascivie e nei vacui trastulli, era donna potente, imbracciava lo scudo, maneggiava l’acciaro. In un giorno che io vorrei cancellato dagli annali del Piemonte, in un giorno funesto assumeva le redini del potere e diceva al popolo: finchè io le terrò in pugno, le tue sorti staranno. E in un altro giorno che la storia italiana chiamerà nefasto, lasciò quel potere perchè il tenerlo più oltre avrebbe potuto fruttare vergogna. Ei ritornò alla vita privata, ma cercando altri ajuti per soccorrere la patria; ed allorchè alcuni uomini di buona volontà gli dissero: ritentiamo, affrettiamo la Confederazione; egli abbracciò, egli riconobbe sua quell’idea e del suo nome improntandola le diè certo il marchio della vittoria.
Io non abuserò più oltre della vostra indulgenza e terminerò là donde io mossi, cioè col ringraziarvi. In Piemonte dovea risorgere il pensiero della Confederazione perchè qui era nato, qui era stato predicato, e perchè nel solo Piemonte oggi splende ancora lume di speranza per gli italici destini. Il Piemonte non ha piegato la fronte sotto le sventure, il popolo subalpino grandeggiò sempre nelle stesse sventure; egli non si accascia come il vile; nè sue sono le onte che si vorrebbero infliggere al suo nome; egli ne lascia tutta la responsabilità a’ suoi governanti; il Piemonte è parato ancora agli ultimi sacrifizi, alle ultime prove. Ed io qui dico che calunniano l’esercito quelli che affermano non voler esso più trarre la spada; no, l’esercito è oppresso da gravi dolori, è turbato da fiere memorie, ma è pur sempre l’ardente, il generoso vincitore di Goito; e per me lo dicano quelli che vestono la nobile assisa del soldato, e che sono in questa stessa sala.
La Confederazione raccogliendo in un fascio le forze tutte della penisola darà forza e nome all’Italia; allora potrà essa stessa dettare le sue leggi e non tenderà più supplicando la mano alle indifferenti sorelle che ora altere della loro prosperità, la guardano sogghignando, e le ricusano il pane del mendico. Le mediazioni non saranno più tra i deboli che allibiscono e i potenti che disprezzano e forse mercanteggiano: ma forti della nostra forza, credenti nel valore nostro, sfideremo nuovamente i perigli della guerra, e diremo allora all’Europa sospettosa ciò che diceva testè la Società nostra all’Inghilterra: noi conosciamo finalmente il vostro lato debole, voi volete la pace, e noi vogliamo l’indipendenza; se questa non otterremo da voi, ebbene noi metteremo in fiamme questa Europa e vi trascineremo nell’universale ruina.