Discorsi della Società Nazionale per la Confederazione Italiana/Berti
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DELLA CONFEDERAZIONE ITALIANA
NELLE SUE ATTINENZE POLITICHE.
DISCORSO
DEL PROF. DOMENICO BERTI
DI TORINO
- Signori,
V’hanno, o Signori, applicazioni così ovvie di principii così semplici, che appena enunciate noi ci meravigliamo come per farle siasi voluta l’opera lunga e dolorosa dell’esperienza. Uno dei principii i più semplici si è che per operare, e per perfezionarsi è d’uopo essere: dal che ne conseguita che una nazione non può operare se primieramente non esiste. Questa deduzione che è pure una naturalissima applicazione d’un principio generale da tutti professato, fu se non ignorata, al certo oscuramente intravveduta dai grand’uomini de’ tempi passati, e solo ne’ nostri proclamata come un assioma politico.
L’Italia non esiste ancora come nazione. Ella è nella fantasia del poeta, nel pensiero del filosofo, nel cuore di tutti gli italiani, ma non nei gabinetti diplomatici o nei trattati che formavano e formano purtroppo ancora il giure europeo. L’Italia di Roma repubblicana od imperiale, l’Italia guelfa o ghibellina, di Carlo V o di Napoleone, non fu mai l’Italia, che noi intendiamo e vogliamo, cioè l’Italia federale. Per costituire quest’Italia, la via migliore e più opportuna è quella di comporre insieme le moltiplici parti della vasta penisola per mezzo d’un patto che le leghi ed unifichi, e ne formi un sol tutto, col quale si dichiari all’Europa che l’Italia esiste. Ecco quello a cui è chiamato il secolo presente, quello che si propone la società federativa. Non è questo come voi vedete, o Signori, uno scopo gretto o meschino, uno scopo d’interessi particolari o di basse ambizioni; ma scopo vastissimo nazionale, tentato imperfettamente sei secoli sono: egli è lo scopo di dichiarare che l’Italia esiste, ed ha diritto di esercitare nel grande incivilimento europeo quegli uffizii che le venivano assegnati dalla provvidenza.
Ma perchè questo patto federativo formi dell’Italia una nazione vivente, e non solo una nazione diplomatica, perchè esso passi dalla pergamena all’atto di forza concreta, è necessario istituire un potere centrale che rappresentando gli stati confederati, concentri e riduca ad unità l’azione moltiplice delle singole potenze. Questo potere centrale è la forza nuova, e direi l’Italia nuova, risultante dalla vecchia Italia frazionata e divisa; da lui nascerà la nostra politica esistenza, e l’unità della nostra rappresentanza all’estero. Avremo allora una diplomazia nazionale e non municipale, italiana e non austriaca. Gli Inviati nostri non parleranno più a nome degli interessi piemontesi, napoletani, toscani, romagnoli ec., ma a nome degli interessi universali della penisola. Non è egli doloroso il vedere come questa nostra nazione, la quale fu un giorno maestra di civiltà a tutti i popoli, traggasi ora dietro loro quasi mendica destinata a raccogliere le brieciole di pane che le potenze europee si lasciano cadere ai loro piedi? Non è egli doloroso elemosinare all’estero quegli ajuti che non sapemmo trovare dentro di noi, e cercare al di là de’ monti quell’Italia che noi non sapemmo trovare al di qua per le nostre disunioni e per la nostra codardia? Deputati di Milano, di Venezia, di Firenze, di Torino chiedono ora alla Francia e all’Inghilterra quello che avrebbero dovuto chiedere alle forze concordi della lega; chiedono a queste nazioni quello che esse nè sanno, nè vogliono dare.
La Confederazione italiana adunque iniziata da un patto, verrà messa in atto dal potere centrale. Un solo sistema di monete, un solo esercito, una sola marina, una sola cittadinanza, una sola legge commerciale ec., renderanno uguali tutti gli stati della lega. I piccoli trarranno forza dalla loro unione coi grandi, senza che i grandi prevalgano sui piccoli. Chi è nato in Torino potrà chiamarsi cittadino di Napoli e viceversa; incomincierà per tal modo l’assimilazione delle parti colte d’Italia; quest’assimilazione crescerà coll’andar del tempo, e specialmente coll’ampliarsi della coltura. È questa l’unica maniera di riavvicinare graduatamente e sicuramente le varie provincie italiane, senza passare per le unioni sforzate od illusorie. I popoli si compongono a nazionalità conoscendosi e mescendosi, e non come vorrebbero alcuni per virtù di leggi scritte o di articoli di giornali.
Finchè adunque l’Italia non sia confederata e non abbia un senato federale permanente non può avere unità e forza d’azione, e non può quindi sottrarsi all’influenza dello straniero. Poichè avendo questi a trattare con sette od otto gabinetti diplomatici distinti, condotti da uomini per principii, per interessi, e talvolta anche per passioni in opposizione fra di loro, gli riescirà agevole di impadronirsi ora dell’uno ora dell’altro, e di far trionfare per tal modo la sua politica nella penisola. Se all’incontro non avvi che un gabinetto federale consigliato da una dieta federale italiana, lo straniero vedrà in ciò un ostacolo alla sua influenza e sarà costretto se non a ricevere, almeno a non imporci i suoi equivoci suggerimenti. Se la nazione svizzera fosse stata divisa in tanti gabinetti diplomatici quanti sono i suoi cantoni, la sua nazionalità si sarebbe a quest’ora perduta, e l’Austria, la Germania, la Francia, l’avrebbero invasa da tutte le parti. Ordinata l’Italia sulle basi da noi accennate, riunirassi naturalmente alle nazioni libere di Europa per lottare contro il dispotismo armato del Nord. Gli ufficii che Ella eserciterà nel futuro incivilimento dei popoli, saranno quelli per cui un giorno crebbe in tanta grandezza e potenza, cioè gli ufficii della scienza e della religione.
Questi sono secondo me i vantaggi politici generali che derivano dalla Confederazione, quale venne dal nostro programma definita. Ma altri vantaggi più particolari e più immediati noi possiamo enumerare, i quali riguardano da vicino lo stato reale della penisola, e quello delle nostre istituzioni - e primieramente io osservo che nel costituire la penisola, noi ci troviamo a fronte di due fazioni. - L’una municipale, l’altra unitaria. Vorrebbe quella dividere le membra d’un medesimo corpo facendo consistere la perfezione in un isolamento compiuto, che quando si effettuasse, saprebbe del barbaro e del selvaggio, - vorrebbe questa fondere le cose le più disparate, e nulla curando la storia della penisola, la sua posizione geografica, la varietà delle stirpi, l’ineguaglianza della coltura, la differenza delle abitudini, de’ governi, de’ dialetti, per una smania di malintesa unità vorrebbe livellare violentemente tutte le provincie, e togliere quella varietà da cui esse ricevono vita, forza e bellezza. - Ambedue queste fazioni riescono senz’accorgersi al medesimo fine, che è la negazione della nazionalità. Quella per troppo dividere, questa per troppo unire; ora se havvi un mezzo di conciliare la varietà municipale coll’unità nazionale, gli è certamente quello della confederazione e del potere centrale. - Imperocchè, sì l’una che l’altro non pregiudicando alla vita individuale de’ municipii, e provvedendo nello stesso tempo alla vita intiera della nazione, accordano i due elementi apparentemente discordi, e fanno sì che l’Italia possa godere della prosperità che va generalmente unita ai piccioli stati, e della potenza che nasce dai grandi.
Oltre dell’accordo del municipio e della nazione, v’ha ancora un accordo molto più difficile, e che le circostanze presenti hanno dolorosamente dimostrato necessario ed indispensabile, questo è l’armonico conserto del potere spirituale e del potere temporale della Chiesa. Molte giuste obbiezioni si fecero relativamente alla congiunzione di questi due poteri in un medesimo individuo. Noi vedemmo con rammarico non ha guari, quel Pontefice che aveva così gloriosamente iniziata l’era di redenzione, ritrarsi sospettoso dalla lotta impegnata per l’indipendenza, e dichiarare ch’egli non voleva prender parte alla guerra. Il che era implicitamente un dire che l’Italia non poteva essere nazione, e che la sua qualità di Pontefice l’avrebbe sempre impedito di coadiuvare all’indipendenza de’ suoi popoli. - Questa triste sentenza lanciata dal Campidoglio scosse gli animi di tutti i buoni, e produsse pur troppo sanguinose agitazioni e tristissime sventure. - I mali provenienti da questa doppia qualità, di padre spirituale dei cristiani, e di principe, non sono ancora cessati. - Non crediate però, che io intenda affermare essere necessario un assoluto divorzio fra questi due poteri. - Io voglio solo asserire, che al potere centrale della Confederazione appartenendo il dichiarare la guerra o la pace, è tolta al Papa ogni responsabilità a questo riguardo, e si pon fine alla contraddizione, che uno stato italiano non possa pigliar parte alla guerra dell’indipendenza italiana.
Un terzo bene speciale della Confederazione gli è il creare un centro d’onde partano, e si diramino alla circonferenza sociale le idee che debbono servire di educazione politica alla nazione. Questo centro sarà costituito dalla sede della dieta, che potrassi considerare come la capitale morale, e non amministrativa, della penisola. Le capitali dei singoli stati non verranno nei loro interessi pregiudicate da questa primazia morale, e la Nazione ne trarrà tuttavia un grandissimo bene, in quanto che verrà per questa via gradatamente formata ad unità di pensiero. Una nazione priva affatto di capitale non avrà influenza di sorta sulle altre nazioni. La testa è necessaria agli stati come agli individui tutti. La perizia consiste nell’operare in modo che questa non cresca sterminatamente; sinora l’Europa non ha ancora fatto niun vero esperimento di capitali federali. L’Italia pare destinata a tentarlo per la prima. Io spero che vi riuscirà, e che la capitale della federazione italiana unirà in sè la maggior parte de’ beni delle capitali europee, senza i vizii gravissimi da cui vanno infette.Finalmente la Confederazione può considerarsi come moderatrice de’ principi e de’ popoli. Il potere centrale determinando i diritti de’ singoli stati, e le relazioni generali de’ governanti e de’ governati, veglierà alla conservazione degli uni e delle altre. - Sarà pei principi una guarentigia contro la rivolta de’ popoli, e sarà pei popoli una guarentigia contro le usurpazioni de’ principi. - Le agitazioni ne’ popoli derivano quasi sempre dal sospetto che essi hanno, che i loro diritti possano venir violati. L’attribuirle, come vogliono alcuni, a semplici demagogi, è cosa affatto falsa, perchè la demagogìa non è mai potente a segno da sollevare le intere masse, in cui pur sempre domina il sentimento dell’autorità governativa. Questo che è vero de’ popoli in genere, è verissimo de’ popoli italiani per la loro indole particolare, e per gl’influssi dell’idea evangelica a cui da diciotto secoli andarono soggetti. - Le diffidenze ed i mali umori che in varie provincie si manifestarono contro i governi, sono piuttosto un effetto dell’imprudenza, e soprattutto del loro fare cupo, ambiguo, e degli strani avvenimenti di cui furono cagione, anzichè di fazioni repubblicane o di declamazioni demagogiche. I movimenti popolari nascono da cause più profonde; se i demagogi riescono qualche volta ad agitare il popolo, gli è perchè ne toccano soventi i mali che egli conosce e sopporta. Operate chiaro e con affetto, e sarete ricambiati da uguale sincerità ed affezione; ma dal momento che il vostro volto si copre di un velo, è necessario coprire ugualmente il nostro, affinchè la schiettezza medesima non ci tradisca, e la bontà delle nostre intenzioni non sia causa di danni e di dolori.
Riassumendo ora in brevissime parole quanto venni finora esponendo, dirò che due sono i grandi vantaggi della Confederazione, l’uno risguarda l’estero, l’altro l’interno: relativamente all’estero la nazione italiana verrà con quest’atto a costituirsi e presentarsi in cospetto alle nazioni europee per mezzo di una sola rappresentanza: relativamente all’interno, il potere centrale della Confederazione accordando il municipio e la nazione il potere temporale e lo spirituale, frenando l’esorbitanze dei Principi e dei popoli, e creando un centro politico, renderà l’Italia quieta e prospera al di dentro, grande e possente al di fuori.