Discorsi, e lettere/Lettera della contessa Francesca Roberti Franco a Bianca Laura Saibante Vannetti, che le avea mandate alcune delle sue prose, e de' suoi versi

Francesca Roberti Franco

Lettera della contessa Francesca Roberti Franco a Bianca Laura Saibante Vannetti, che le avea mandate alcune delle sue prose, e de' suoi versi ../Lettera al medesimo Mentore intorno alla curiosità delle Donne IncludiIntestazione 12 gennaio 2017 100% Da definire

Lettera della contessa Francesca Roberti Franco a Bianca Laura Saibante Vannetti, che le avea mandate alcune delle sue prose, e de' suoi versi
Lettera al medesimo Mentore intorno alla curiosità delle Donne
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LETTERA

Della Contessa

FRANCESCA ROBERTI FRANCO

a Bianca Laura Saibante Vannetti,

Che le avea mandate alcune delle sue Prose, e de’ suoi Versi



C
Olle ginocchia della mente inchine scusa vi chiedo al fin del mio silenzio. Una languidezza fatale fisica e metafisica mi colse nel declinare d’autunno: ne risente ancora i danni il mio individuo. Ma che serve recarvi scuse? Se voi siete così gentile, se avete un’anima così delicata, se mi onorate veramente della vostra amicizia, vi saprà abbastanza parlare a favor mio il vostro cuore. Ma ditemi voi stessa, come poteva accingermi a gustare le produzioni del vostro Spirito, se atta non era ad assaporarle? Molti mesi mi stetti non solo senz’applicare, ma senza quasi rispondere ai fogli: vel dica Clementino vostro, a cui ho inviate alcune righe, che parean distese sognando. Finalmente ebbi la ventura non solamente di udir a leggere e applaudire il vostro scritto, ma ho la compiacenza di gustarlo più saporitamente qui da me sola. Oh quanto mi diletta il vostro scrivere! che genere nuovo di stile, che dolcezza, che armonia, che [p. 66 modifica]delicatezza! ma insieme che maestria, che fondo, qual possesso di lingua! Io, che mi pregio d’intendere cosa sia delicatezza, francamente decido che delicati sono i vostri versi, delicatissime le vostre prose: e qual pregio poria bramarsi maggiore in sì fatti gentili componimenti? Vi deggio asserire, che tratto tratto soffermavasi il leggitore, uomo erudito, e colto, per esclamare: Oh scrive pur bene questa Dama! Ma io non voglio che ammirare confusamente le vostre doti; altrimenti se mi v’interno, il timore o l’affettazione mi rendono più languida e scipita che mai. Già sono in possesso di esser quasi insoffribile agli amici: volete udire il complimento del Bettinelli? Bramo vedere i frutti del suo studio, giacchè quei dell’ozio son chiari abbastanza nel suo lungo silenzio, e nella sua lettera dormigliosa. Vedete dunque se sono oggimai desiderabili i fogli miei, specialmente se mi si mette attorno la soggezione! Presto pria ch’essa mi colga. Io già non farò che scorrere lievemente alcuni punti de’ vostri scritti per darvi a divedere ch’io seppi meditarli, che li pregio, che mi rimasero impressi: e non farò già l’analisi d’essi, come suole il vostro Signorino, che tratta tutto dì maestrevolmente la penna, ma a guisa di Donna, ch’or si pose a maneggiare conocchia e fuso. Entriam nell’arringo di botto.

Molto sensate io trovo le vostre distinzioni sulla donnesca curiosità. Noi in vero rinserrate tra ferri nell’aurora felice de’ nostri giorni, lasciate digiune affatto di lumi, di cognizioni, necessariamente al primo [p. 67 modifica]aprire degli occhi dobbiamo richiedere d’infinite cose gli usi, le proprietà: e se commendasi la curiosità come una felice disposizione ne’ fanciulli, che promette frutti grandissimi di sapere, perchè non dovrà pregiarsi in una Donna, a cui nulla s’insegna ne’ primieri suoi giorni? In seguito, come voi dite, non lice a noi gir vagando qua e là, come i nostri Signori usano; quindi per necessità dobbiamo apparire curiose. Negli uomini la curiosità è desta e appagata per tempo, in noi si lascia sopita, ed è gran ventura se risvegliasi opportunatamente. Ma deggio dirvi che la vostra è più discreta ch’io non vorrei? Siete discreta così, che per poco vi taccierei di troppa discrezione. Curiosità ragionevole e necessaria, poi punto! Perchè una discreta erudita curiosità non la commendate voi alle Donne? è vero che con assai d’avvedutezza ne inserite l’elogio, quasi fingendo non averla in mira; ed avvalorate la donnesca erudita curiosità coll’esempio vostro, sicchè vi perdono se più non vi siete diffusa, e seguito l’orme vostre.

Ma che non dovrò dire dello Spirito? vaga e bizzarra è ben la vostra quistione. Voi formate la vostra Donna di spirito di tre ingredienti: leggiadria, saviezza, dottrina. Piacemi più questa vostra composizione che alcune delle metafisiche diffinizioni, che ho lette sopra lo Spirito. Davvero essa è ingegnosa, e nuova affatto per mio avviso, ed io trovola commendabilissima, perchè faria troppo desiderabile che chi possiede ingegno, talenti, vero [p. 68 modifica]spirito, andasse fornito di saviezza almeno; ma non posso a giusta equità accordarvi che sia necessario essere saggia e leggiadra per essere spiritosa. Quanti begli Spiriti non ci sono, che si piccano di non conoscere la vera saviezza nè meno a nome, o che son goffi e mal conci nel corpo? Se lo Spirito propriamente consiste in una felice combinazione d’idee, che hanno qualche somiglianza o relazione fra loro, dalla quale risulta quella soave semplicità, quella dolce naturale maniera di scrivere, di presentarsi, di parlare, da cui non allontanasi se non chi non ha talento di dar risalto a un pensiero senza cangiarlo in un mostro, da cui non si discosta se non chi è pieno d’affettazione e artificio e ne’ detti e ne’ gesti: si dee necessariamente inserire che si può essere spiritosa mancando di leggiadria, e non avendo la saviezza per guida. A me torna bene adottare la definizione del Locke, il qual vuol che la natura del vero Spirito consista nel concepir facilmente le idee, nell’esprimerle nitidamente, nell’unirle, e raccoglierle con agilità osservandone i rapporti, per poscia fare delle vive pitture che divertano e rapiscano a un tratto. È vero ch’ei più s’inoltra ove dice, che non tutte le confacenze d’idee chiamar si possono spiritose, se oltre al sorprendere e divertire non abbiano del mirabile. Ma che vado io dicendovi? voi pretendete, io mi accorgo, di formare una donna compiuta, e non una sola spiritosa, quando a me non resta che alzar le mani al cielo per divenire una spiritosa qual la divisate voi, più presto, che [p. 69 modifica]qual la definisce il sapientissimo Inglese. Oh quanto falsamente si prodiga al giorno d’oggi il nome di Spiritoso! Una vivacità baldanzosa prendesi per un’immaginativa felice, una ciancia per prontezza di spirito: si confonde, si meschia vivacità, irregolarità, e fino sfacciataggine, e si forma il bel nome di Spiritoso. Vale oggimai presso noi questa parola Spirito quel che pesa appo i Francesi la voce Sentiment. Protestasi un Erudito che hanno i Francesi così travolte l’idee sul suo vero significato, ch’è una compassione. Io mi fo intanto a considerar seco voi come Madama di Sade era la leggiadra, la saggia, ma non era la spiritosa: quindi quell’Anima ingenua del Petrarca estolle la sua modestia, i suoi dolci atti schivi ec., e non esagera mai le doti del suo spirito benchè ammiratore di lei; lodando bensì e riconfortando quel gentile donnesco Spirto a salire coi pochi compagni l’aspra via, e a non desistere dalla magnanima impresa. Un Antico avverte gli uomini che per rendere saggie e compite le donne si rendano essi veri esemplari di virtù e di saviezza: ma per renderle spiritose credo che assai più valga la natura che l’arte, o l’imitazione.

Volgiamoci ai Fiori, e al terzo vostro erudito foglio. Brava bravissima! voi deludete destramente l’Avversario usando la virtù della dissimulazione: e faceste benissimo a non confessare candidamente che avevate posato sulla tempia il fiore, perchè il fidato vostro consigliere vi avea resa avveduta, che spiccavano così maggiormente le grazie del vostro viso. [p. 70 modifica]Per altro antichissimo al par dei fiori io reputo l’uso di amare i fiori, di ornarsi di fiori il crine: e parmi già di vedere quelle vaghe figlie de’ primi uomini descritte dal Genesi tutte ricoperte di fiori, che spargeano mille odorosi profumi, onde allettare i figliuoli di Dio. Sì ch’io credo nata parimente col Mondo la donnesca vanità, nato con esso nelle donne il desio d’apparir vaghe, avvenenti: quindi si diero a imitar la bella natura spogliando gli orti e i prati dei lor migliori ornamenti per farsene ricche e leggiadre. Questa nostra tendenza io la trovo scusabile in qualche parte, perchè i fiori solleticano tanto dolcemente e innocentemente i nostri sensi. Quanto non rallegrano essi colle lor vaghezze tante e sì varie e sì mirabili e nuove gli occhi nostri? con quante grate fragranze non vellicano soavemente le papille delle nostre narici? Dal gelsomino, dalla giunchiglia, dall’azzurro-porporina si spreme un nettare, che vince lo stesso mele; la mano si racconsola cogliendo i fiori, il piede scalpitando l’erbette e i fiori: destano essi in noi le più pure dolcissime sensazioni, che scendono fino all’anima: ma per gustarle colla più vera finezza io esorterei ad usarne con sobrietà, come si fa di tutti i più dilicati piaceri, perchè parlando confidentemente fra noi, quel girne cariche ricoperte oltre che si oppone al nostro interesse, perchè si ammirano i fiori più che la bella, io nol saprei scusare di leggerezza. Era una volta tocca anch’io di questa malattia; e dovendo l’altra sera apparire alla danza, mi posi in capo cinque sole palme di fiori, [p. 71 modifica]oltre i lucidi epesanti; e credetti di usare un atto magnanimo di moderazione. È vero che le Regine stesse e l’altre Donne di Salomone pregiavano quasi più che le gemme e l’auro i bei spontanei fiori; e quanto erano allora in pregio i fiori si scorge dalle vive descrizioni, dalle comparazioni, dalle immagini, che il Sapientissimo stesso prende dai fiori: e poi non si diè egli la pena di tessere un intero libro dall’isopo fino al cedro, al cipresso? Libro pieno di maravigliosa sapienza, ch’esauriva la storia dell’erbe e dei fiori, a noi da maligna sorte involato. Gli esempj stessi, che voi ricordate, di quegli Empj, che givan gridando, Coronemus nos rosis, benchè parlino di metaforiche rose, appagano tuttavia l’opinion di Teocrito, che portassero fiori in capo gli uomini stessi, perchè non avria presa la similitudine da cosa, che mai non fosse caduta sotto i lor occhi. Ma a me piace di giustificare la nostra propensione coll’autorità della Sacra Sposa de’ Cantici: e quanto non era vaga la sacra Amante dei fiori, quanto non parla di fiori? volea non solo essere coronata di fiori, ma stesa sui fiori, ma tutta cinta di poma, e fiori: Fulcite me floribus, stipate me malis. Dunque si amino pure da noi i fiori, che sono il vero simbolo degli innocenti piaceri: s’imiti pure da noi la Sacra Sposa, che tutta candida e bella apparve agli occhi dello Sposo Divino. Vi reco sacri passi, perchè so quanto la sacra erudizione vi piaccia. E scorrendo altri punti, perchè ci recate in campo, Amica, le villereccie donne? noi imitare la rustica [p. 72 modifica]plebe? tolga il Cielo. Nobilissimo quanto altro si è l’uso di ornarsi di fiori il crine. E non vi rammenta che a noi diceste dalle prime figlie di Adamo nobilissime al certo, poich’ebbero per padre quegli, che fu creato dalla stessa mano dell’Onnipotente? E poi le gran Donne antiche, le Reine ricordatevi, tutte le Dive più eccelse non vanno esse inghirlandate di fiori? Omero non offre serti di lauri a’ suoi famosi Eroi, e non intreccia di mirti e rose alle Ninfe le bionde chiome? altro che Romane Matrone! E la nostra Lauretta non era ella Donna gentile? e in quante fogge non l’orna di fiori il Poeta dell’anima? giunge per fino a trasformarla in un fiore:

Qual miracolo è quel quando fra l’erba
Quasi un fior siede?...

E poco appresso:

Qual dolcezza è ne la stagione acerba
Vederla ir sola co’ pensier suoi insieme
Tenendo un cerchio a l’oro terso e crespo?

E in quell’estasi Platonica non la vide egli non solo coronata di fiori, ma tutta ricoperta da un amoroso nembo di fiori? Stanza incomparabile, e degna di essere impressa in mille e mille carte:

Da’ be’ rami scendea
Dolce ne la memoria
Una pioggia di fior sovra il suo grembo:
Ed ella si sedea
Umile in tanta gloria
Coverta già de l’amoroso nembo:
Qual fior cadea sul lembo,

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Qual su le treccie biònde,
Ch’oro forbito, e perle
Eran quel dì a vederle:
Qual si posava in terra, e qual su l’onde:
Qual con un vago errare
Girando parea dir: Qui regna Amore.

Dunque voi ed io ci orneremo sobriamente il capo anche in memoria della Petrarchesca Diva. Che dolcezza mi serpe per entro all’anima! quasi non saprei proseguire: mi scordo il Petrarca, e ritorno a noi. L’origine dell’usanza di cinger di fiori le tempie, di sparger di fiori le vesti, e le mense, io la desumerei dall’imitazione della natura, la quale fu poi propagata e diversificata dalla donnesca ingegnosa vanità. Al leggiadro filosofante Monsignor di Firenzuola risponderei, se osassi, in brevi accenti, ch’io crederei nella sua teoria, se ad essa rispondesse fedelmente la pratica, e se fossero ferme le donne nell’assettarsi sempre quei fiori, e sempre in quel modo, in cui parve ad esse, assicurate dall’occhio, che più loro adornavano il viso: ma come cangiano sempre forma e colore, è giuocoforza asserire, che, poco curando le regole del Firenzuola, si lascino esse talora governare dai sensi, talora dall’opinione. Io amo d’attribuire tutti i cangiamenti alla bella varietà, che tanto in ogni cosa piace e diletta, e ci rende gradito qualunque oggetto, e ci fa imitatrici fedeli della natura, che varia e cangiasi ad ogni volger di ciglio. Quindi, Amica, non siate, ve ne scongiuro, costante nel riporvi sulla destra tempia il [p. 74 modifica]fiorellino, tanto più che a’ giorni nostri nessun Fisico vi meneria buona la proposizione della tempia avvallata: ci vuol altro che appoggiarsi sul morbido origliere per fare una valletta nel cranio! Io scherzo; so che l’attribuite ai capelli, che appajon più radi da quella parte. Vi scrivo fra cotai disturbi, ch’è prodigio se non dico bizzarrie inescusabili. Scusatemi, pregiatissima Amica, io so di scriver alla familiare a un’amica qual siete voi: so d’esservi debitrice da gran tempo, ed amo meglio inviarvi tosto un foglio disadorno a spese della mia vanità, che una lettera tutta liscio in capo a un mese. Mille saluti al vostro figlio, che servirò in Settembre d’un’eterna lettera. Sono a’ vostri comandi.

Di Padova a’ 17. Agosto 1778.


Francesca Roberti Franco.