Dialoghi dei morti/7
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Traduzione dal greco di Luigi Settembrini (1862)
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7.
Zenofante e Callidemide.
Zenofante. E tu, o Callidemide, come se’ morto? Io, ch’ero parassito di Dinia, empiendomi il sacco sino alla gola, affogai: tu il sai, che eri presente quand’io morii.
Callidemide. V’ero, o Zenofante. Ma il fatto mio è assai strano. Hai conosciuto anche tu il vecchio Tiodoro?
Zenofante. Quel ricco che non ha figliuoli, e al quale tu ti eri cucito a fianco?
Callidemide. Lui: e gli facevo carezze, su la promessa che a morte sua mi farebbe erede. Ma poichè la cosa andava per le lunghe, e il vecchio viveva più di Titone, trovai una certa scorciatoia per venire all’eredità: comperai un veleno, e persuasi un suo coppiere, come prima Tiodoro cercherebbe da bere quel vinetto con cui egli suole sempre rinfrescarsi, di tener pronto il veleno, gettarlo nella tazza, e porgergliela. E gli promisi, se facesse questo, di dargli la libertà.
Zenofante. E che avvenne? Tu dici cosa molto strana.
Callidemide. Quando noi tornammo dal bagno, il garzone teneva pronte due coppe, l’una avvelenata per Tiodoro, l’altra per me: ma non so come scambiandole, diede l’avvelenata a me, e l’altra a Tiodoro: ei bevve, e pro: io tosto caddi, ed eccomi morto in vece sua. Ma che? tu ridi, o Zenofante? Sconviene deridere così un compagno.
Zenofante. Rido, che ti fu fatta una galanteria, o Callidemide. E il vecchio che fece?
Callidemide. Prima si turbò del caso subitano: poi capì, credo, come era andata, e rise anch’egli del tiro del suo coppiere.
Zenofante. Ma tu non dovevi prendere la scorciatoia: per la via grande ci saresti venuto più sicuro, benchè un poco più adagio.