Dialoghi con Leucò/Gli dèi
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Gli dèi
— Il monte è incolto, amico. Sull’erba rossa dell’ultimo inverno ci son chiazze di neve. Sembra il mantello del centauro. Queste alture sono tutte cosí. Basta un nonnulla, e la campagna ritorna la stessa di quando queste cose accadevano.
— Mi domando se è vero che li hanno veduti.
— Chi può dirlo? Ma sí, li han veduti. Han raccontato i loro nomi e niente piú — è tutta qui la differenza tra le favole e il vero. «Era il tale o il tal altro», «Ha fatto questo, ha detto quello». Chi è veritiero, si accontenta. Non sospetta nemmeno che potranno non credergli. I mentitori siamo noi che non abbiamo mai veduto queste cose, eppure sappiamo per filo e per segno di che mantello era il centauro o il colore dei grappoli d’uva sull’aia d’icario.
— Basta un colle, una vetta, una costa. Che fosse un luogo solitario e che i tuoi occhi risalendolo si fermassero in cielo. L’incredibile spicco delle cose nell’aria oggi ancora tocca il cuore. Io per me credo che un albero, un sasso profilati sul cielo, fossero dèi fin dall’inizio.
— Non sempre queste cose sono state sui monti.
— Si capisce. Ci furono prima le voci della terra — le fonti, le radici, le serpi. Se il demone congiunge la terra col cielo, deve uscire alla luce dal buio del suolo.
— Non so. Quella gente sapeva troppe cose. Con un semplice nome raccontavano la nuvola, il bosco, i destini. Videro certo quello che noi sappiamo appena. Non avevano né tempo né gusto per perdersi in sogni. Videro cose tremende, incredibili, e nemmeno stupivano. Si sapeva cos’era. Se mentirono quelli, anche tu allora, quando dici «è mattino» o «vuol piovere», hai perduto la testa.
— Dissero nomi, questo sì. Tanto che a volte mi domando se furono prima le cose o quei nomi.
— Furono insieme, credi a me. E fu qui, in questi paesi incolti e soli. C’è da stupirsi che venissero quassú? Che altro potevano cercarci quella gente se non l’incontro con gli dèi?
— Chi può dire perché si fermarono qui? Ma in ogni luogo abbandonato resta un vuoto, un’attesa.
— Nient’altro è possibile pensare quassú. Questi luoghi hanno nomi per sempre. Non rimane che l’erba sotto il cielo, eppure l’alito del vento dà nel ricordo piú fragore di una bufera dentro il bosco. Non c’è vuoto né attesa. Quel che è stato, è per sempre.
— Ma son morti e sepolti. Adesso i luoghi sono come erano prima di loro. Voglio concederti che quello che hanno detto fosse vero. Che cos’altro rimane? Ammetterai che sul sentiero non s’incontrano piú dèi. Quando dico «è mattino » o «vuol piovere», non parlo di loro.
— Questa notte ne abbiamo parlato. Ieri parlavi dell’estate, e della voglia che ti senti di respirare l’aria tiepida la sera. Altre volte discorri dell’uomo, della gente che è stata con te, dei tuoi gusti passati, d’incontri inattesi. Tutte cose che furono un tempo. Io, ti assicuro, ti ho ascoltato come riascolto dentro me quei nomi antichi. Quando racconti quel che sai, non ti rispondo «cosa resta?» o se furono prima le parole o le cose. Vivo con te e mi sento vivo.
— Non è facile vivere come se quello che accadeva in altri tempi fosse vero. Quando ieri ci ha preso la nebbia sugli incolti e qualche sasso rotolò dalla collina ai nostri piedi, non pensammo alle cose divine né a un incontro incredibile ma soltanto alla notte e alle lepri fuggiasche. Chi siamo e a che cosa crediamo viene fuori davanti al disagio, nell’ora arrischiata.
— Di questa notte e delle lepri sarà bello riparlare con gli amici quando saremo nelle case. Eppure di questa paura ci tocca sorridere, quando pensassimo all’angoscia della gente di un tempo cui tutto quello che toccava era mortale. Gente per cui l’aria era piena di spaventi notturni, di arcane minacce, di ricordi paurosi. Pensa soltanto alle intemperie o ai terremoti. E se questo disagio fu vero, com’è indiscutibile, fu anche vero il coraggio, la speranza, la scoperta felice di poteri di promesse d’incontri. Io, per me, non mi stanco di sentirli parlare dei loro terrori notturni e delle cose in cui sperarono.
— E credi ai mostri, credi ai corpi imbestiati, ai sassi vivi, ai sorrisi divini, alle parole che annientavano?
— Credo in ciò che ogni uomo ha sperato e patito. Se un tempo salirono su queste alture di sassi o cercarono paludi mortali sotto il cielo, fu perché ci trovavano qualcosa che noi non sappiamo. Non era il pane né il piacere né la cara salute. Queste cose si sa dove stanno. Non qui. E noi che viviamo lontano lungo il mare o nei campi, l’altra cosa l’abbiamo perduta.
— Dilla dunque, la cosa.
— Già lo sai. Quei loro incontri.