Di quel possi tu ber che bevve Crasso
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A CARLO IV DI LUZIMBURGO, L’ITALIA
Di quel possi tu ber che bevve Crasso
E veder le tue membra come Mario!
O, come Sceva, sia di piaghe vario;
O divenghi mendico come Oreste!
5Come a Odarete il sol ti passi ’l casso,
E trovi tai fedel quali ebbe Dario!
O quale ebbe Tarpeia abbi salario,
O quante a Giob ti vengano moleste!
E se non bastan queste
10Tante bestemmie e tanta ria ventura,
Tante te ’n vengan quante Ovidio augùra
Contra Ibim e se più ne furon mai!
Forse che tu non sai
Chi sì t’assal non sanza grande e dura
15Cagion, quale udirai con lingua oscura?
Sappi ch’i’ son Italia che ti parlo,
Di Lusimburgo ignominioso Carlo.
Qual dolor vince quel che ciascun sente,
Quando di nuovo veramente sanza
20Si vede più d’aver qualche speranza
Nel male stato suo lungo e perverso?
Certo, nessuno: sì com’io dolente
Ausonia provo, che per grande stanza
Afflitta sono: ed ora in tua possanza
25Tutto lo mio sperare era converso;
E ’l mostrai per tal verso.
Già son cent’anni e più, com’è palese,
Che a confonder l’impero il Papa intese;
E tu per lui se’ fatto imperadore;
30Ed or col suo favore,
Quando dovevi, vinto il mio paese,
Gir oltramar, di quello fai le spese
C’hai tolto qui e ne porti in Boemme,
E me abbandoni con Gerusalemme.
35 O d’Aquisgrana maladetta paglia!
O di Milano sventurato ferro
E di Roma anche l’oro, il qual te, erro,
Ha come imperadore incoronato!
Chè la tua spada dove dè’ non taglia;
40E ’l tuo parlar può dir — Mai non disserro
Vero; — ma ’l grembo tuo può ben dir — Serro,
E chiudo sanza aprir ciò che m’è dato. —
Ciascun da te ingannato
Si trova, salvo ch’uno il qual mi disse,
45In prima che tu fuor di Praga uscisse
Per venir qua, poi che ti conoscea
— Italia, il tuo Enea
Non fe tanto per te mentre che visse.
Nè Cesar nè Augusto, e chi sconfisse
50Brenno e Annibale e Pirro mise in caccia,
Che questo Carlo più non ti disfaccia. —
O Roma più che mai isconsolata!
O più che maï guasta Siena e Pisa!
O più che mai Toscana in mala guisa!
55O più che mai or serva Lombardia!
O più che mai ancor gente scacciata
Dalla mia terra per parti divisa!
Com’è la tua speranza, omè!, derisa
D’aver al tuo tornar omai più via!
60Chi vorrà più che sia
Venuto dalla Magna alle mie parti,
Veggendo te aver tese tue arti
A tôr danari e gir con essi a casa?
Ahï stirpe rimasa
65Diversa al tuo buon avo! perchè darti
Volesti questo impaccio a coronarti,
Togliendo in ciò forse la volta a tale
Ch’arìa ben fatto, dove tu fai male?
Tu dunque, Giove, perchè ’l santo uccello
70(Sotto il qual primamente trïonfasti,
E poi a me da’ Dardani il mandasti;
E fe di Roma nido a suo gran parto
Col gran Quirino prima e col fratello,
Poi con voi suoi seguaci che il portasti
75Quando in cinquecent’anni m’acquistasti
E poi in duecento l’altro mondo isparto)
Da questo Carlo quarto
Imperador non togli e dalle mani
Degli altri lurchi moderni Germani,
80Che d’aquila un allocco n’hanno fatto?
Rendilo sì disfatto
Ancora a’ miei Latini e ai Romani;
Forse allor rifarà gli artigli vani,
Co’ quali e con qual gente altre fïate
85Fe che le porte furo a Gian serrate.
Canzon, non aver téma,
Benché il tuo tèma sia molto aspro a dire;
Chè spesso lo corregger, per ver dire,
Lo mal far d’uno, a mille ne fa bene.
90E poi, se pure avviene
Che vegga quei che qui tua rima tocca,
Apri la bocca e digli tutto intero;
Chè non puote mal dir chi dice il vero.
(La pubblicò monca e scorretta il Trucchi (Serventese e Poesie liriche di F. degli Uberti, ecc.); l’abbiamo corretta su i codd. 1050-1041 riccard.)