Della vita e degli scritti di Gian Giacomo Mazzolà
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DELLA
VITA E DEGLI SCRITTI
DI
GIAN GIACOMO MAZZOLÀ
MEDICO E LETTERATO PADOVANO
DEL SECOLO XVIII
PADOVA
PER F. A. SICCA E FIGLIO
1846
A
GIROLAMO DOLCETTA
NEL GIORNO
DELLA SUA LAUREA IN MEDICINA
OFFRE
J. M.
- Amico.
Una carriera di lunghi studj finalmente compiuta, memorie di patimenti, di gioje e di affetti all’anime nostre risveglia, o mio dolcissimo Amico! In questa Università frequentammo insieme le ordinarie lezioni di Medicina, dove allora io ti guardava qual condiscepolo, e nulla più; e tu facevi lo stesso verso di me, non passando fra’ nostri cuori l’intima e possente parola dell’amicizia. Più tardi tu fosti a Pavia per apprendere dalla bella mente del Prof. Scarenzio le pure dottrine di quella scienza che a noi tanto piaque di cultivare. A Pavia io pure desideroso convenni, ed alle dolci soddisfazioni che mi attendevano si aggiunse quella della nostra amicizia. Indivisibili e nelle ore di studio e ne’ suoi romiti passeggi ci vide la città dalle cento torri: ed oh come rapide quelle ore che in meditati ed affettuosi colloquj le cose del tuo cuore mi dicevi, discorrendomi spesso delle lucenti onde del Sile, o dipingendomi il sorriso di quella cara fanciulla che promette infiorarti di liete speranze il cammin della vita! Accrescendo tante volte il concento a’ tuoi caldi racconti, mi recitavi co ’l più vivo entusiasmo le dilicate armonie del Carrer e del Dall’Ongaro; le quali armonie, nella vaghissima gita singolarmente per noi fatta su ’l magico lago di Como, eccitavano nei nostri petti una voluttà che sapeva di Cielo.
Oh quante volte, studiando di temperare le tue caste effusioni, era invitata la mia anima a riposarsi nella tua soave mestizia, e ad ammirare la bellezza delle rare tue doti!
Rivolgendo nell’animo, nei giorni che precedettero la tua Laurea, tali cose, raccolto sopra me stesso venni in consiglio, onde in qualche modo testimoniarti la parte che prendo alla tua festa, d’offerirti alcuni cenni su la vita e su gli scritti d’un uomo che nei sani precetti del gran Vecchio di Coo meditò coscienzioso, e che nei quieti ozj della sua vita amò intessere di fiori sempre freschi e soavi una leggiadra ghirlanda al crine dell’eletta sua musa. L’uomo di cui ti parlo è Gian Giacomo Mazzolà. Nessuna cura ho tralasciata nel raccôrre qua e là diligente i fatti e le produzioni di questo insigne Medico-letterato, la cui memoria starebbe tuttora, e Dio sa per quanto, lontana da noi, se un illustre mio amico, con rara e generosa pazienza ne’ molti suoi libri frugando, pòrta non mi avesse feconda e vitale materia ad avvalorarne le sparse tradizioni co’ i documenti, affrettando egli pure, perchè cresciuto nell’amore e nella venerazione di questa classica terra, il mio qualunque ma dilettoso ed importante lavoro.
Il nome del Mazzolà, e le memorie su gli studj di lui 1, misero nel mio animo il pensiero di dettare alcuni rapidi cenni su la storia della Medicina a quei giorni; mentre, per quanto mi fu concesso di rilevare, se morte non lo avesse còlto nel meglio delle pensate speranze, noi avremmo sopra questo argomento un’Opera degna dell’alto suo ingegno 2.
Invitiamo, o tenero Amico, invitiamo noi stessi e tutti i giovani Medici ad ammirare i nobili esempi di Gian Giacomo Mazzolà, e a tener fermo nell’animo che il profitto dei buoni ed utili studj armonizzando con l’interezza del cuore, basta per l’età in cui viviamo, basta per le future: mentre gli uomini del nuovo secolo non solo riverentemente salutano quei grandi già conosciuti dei secoli che tramontarono; ma con amore caldissimo, con solerte pazienza e con perseveranza costante richiamano dal silenzio gelido della tomba ed onorano di monumenti coloro che bene meritarono dell’umanità, e dei quali l’ingiusta noncuranza dei contemporanei, l’invidia, od altre cause oscure e meschine, o il desiderio modesto di tenersi celati, non acconsentirono alla fama di conservarne i nomi, che pur n’erano tanto degni.
Gian Giacomo Mazzolà, di nobilissima stirpe, naque a Padova il 29 Maggio 1753. Giacomo pure diceasi il padre di lui, e Caterina Pasini la madre: avventurati oltre ogni dire, perchè fin dal momento in cui a’ loro occhi soavemente sorrise questo pargolo desiderato, provarono una possente e indefinita dolcezza, alimentatrice delle più belle e serene speranze. La fanciullezza del nostro Mazzolà fu delizia, fu festa alle domestiche mura; e lieto de’ sogni dorati e delle gioconde illusioni con cui l’innocenza rallegra l’albeggiar della vita, il suo vergine cuore schiudeva, irradiato dal materno sorriso, custodito dall’amore materno, dalla materna voce allettato, dal materno latte nudrito; chè la tenera sua genitrice, donna d’illustre famiglia, e perciò doppiamente degna d’essere quì ricordata, non curando le superbie del secolo, ed il soverchio desiderio, per cui molte delle madri nell’indegna paura di vedere appassite le loro fresche bellezze, negano ai figli ciò che nessuna delle fiere negò, l’alimento del proprio seno, essa stessa nudriva e curava il fanciullo suo; e come lo si spiccò dalla mammella, sollecita, pia, di bella mente e di forte sentire, cresceva alla Fede ed alla patria Jacopo suo! E Giacomo, testimonio costante della generosa pietà della sua genitrice, le parole dolcissime di lei stampavasi in cuore, e agli esempj di lei educavasi, vedendo cessare per essa il fioco lamento della miseria, spuntarsi il dardo del dolore, e le lagrime e le preghiere del tapinello alapparire di lei volgersi in voci di benedizione. Tanto frutto egli colse per sì eloquenti lezioni, che quì ci vien dolce, anticipando gli eventi, il richiamare una delle opere belle del nostro Mazzolà, affinchè sia sempre più manifesto come da una buona madre, e dalle prime felici disposizioni dei figli, la patria debba promettersi dei cittadini probi ed onorati. Toccava il dodicesimo anno della sua età, quando un giorno avyenutosi in non sò quale infelice, logoro tutto di salute e di panni, che a lui fanciullo tendeva la destra, offrìgli il poco pane e frutta che aveva; e desiderando potere ancor più, se lo fece compagno sino alla sua casa; ove giunto, alla buona genitrice additandolo, la pregava.... ma la madre, affrettandosi a coprire le seminude membra dell’ospite inaspettato, avea già, nonchè compreso, compiuto il voto del suo Giacomo. A tanta scuola il Mazzolà apparecchiava assai bene il suo medico cuore. La Medicina a lui doveva offerire un vastissimo campo ad esercitare l’ingegno e l’affetto; e ben se ’l seppe in appresso il Portello, contrada da lui eletta siccome il semenzajo de’ poveri, lasciando il suo nome costantemente desiderato; chè sebene la filantropia del Mazzolà andasse coperta dal candido velo della modestia, Padova certamente non ignorava a qual grado giugnesse. Tenero amico de’ suoi parenti, amava seco loro dividere qualche parte del giorno, consacrando poi lunghe ore nella usata sua cameretta, non come ragazzo dal dovere costretto, ma come uomo avvezzo a meditare, e che nello studio ricerca quanto possa a’ suoi simili renderlo utile. Nemico di que’ giochi che spesso fanno scala al vizio, e ai quali senza discrezione abbandonasi la tenera età, ogni cura poneva a riuscire nelle sue scuole tra i primi. Appresi gli elementi dello scibile umano, diede opera con somma predilezione alla lingua del Lazio, allora singolarmente in onore così, come a’ di nostri dannosamente negletta; e da questo studio assiduo egli trasse quella nettezza di idee e di stile, di che le sue poche Opere che ci restano fanno amplissima fede. Così fosse a noi dato possedere quanto dettò, e che nella sua modestia non volle mai publicare! Una felice combinazione valse a far pensare di lui che un giorno verrebbe salutato come poeta. Argomento di ciò furono pochi versi del Metastasio accidentalmente caduti in sue mani, che letti da lui avidamente, gli s’impressero nella mente e nel cuore. Narrasi che rapito da quelle soavi armonie volasse dinanzi a’ suoi genitori, e come concitato da sacra fiamma li recitasse, pregando que’ suoi cari che volessero fornirgli il volume che comprendeva il sèguito di quella poesia: di che sbigottiti e dolenti rimasero i genitori, perchè, considerato lo squisito sentire e l’età del loro figlio, vedeansi costretti con affettuose e lusinghiere parole di procrastinare, e non far contenta quell’ardente preghiera. Se rimanesse mortificato il buon Giacomo per le fallite speranze non è ch’io lo dica.... passò taciturno e irrequieto tristissimi giorni. come usignuolo che su l’aprire di primavera vedasi d’improviso imprigionato, e rotte le sue carissime melodie. Cresciuto negli anni, volgendo frequentemente nell’animo l’acerbo dolore per lui sostenuto in quella circostanza, allora, egli diceva, io non sapeva acquetarmi alle lentezze da prima, e quindi al rifiuto; nè potevano i dolci e forti argomenti de’ miei genitori disuadermi dalla lettura dei drami immortali: ora veggo che aveano ragione, e che ai cuori inesperti può valere quella lettura ben altro che studio e poesia. E schiettamente solea confessare la sua disobedienza, mentre perduta la pace al divieto de’ suoi genitori, e pur sempre sognandosi del suo Metastasio, fece sparmio del poco peculio che veniagli ne’ dì festivi donato pe’ i suoi piccoli passatempi o per le frutta, e non andò guari ch’ebbesi il desiderato libretto. Le armonie soavissime del Metastasio, e lo splendore in appresso dei sovrani versi del Monti, fecondarono mirabilmente quei germi di poesia che di giorno in giorno maturavansi nel di lui petto.
Compiute le scuole del Ginnasio, lieto della freschissima rosa tiberina, e della presa dimestichezza coi sommi scrittori, la sua mente così fornita di amene cognizioni sentiva il bisogno di governarle con filosofica meditazione. La nostra Università lo accolse festosa, attendendo dal pronto ingegno di lui grandi cose: le ottenne, e dell’alloro della sapienza cinse le sue giovani tempie. Noi quì dobbiamo distintamente ricordare quest’epoca della sua vita, siccome quella in cui il cuore di lui ebbe a soffrire quel notabile cangiamento che scuote dal fondo i principj della domestica educazione, e leva lo spirito dal vagheggiare le brillanti imagini dell’infanzia. Egli, pieno il petto di quella melancolia che suol essere compagna assidua dei grandi ingegni, cercava i romiti passeggi, la quieta pace della campagna; e la vaneggiava, cantava i suoi versi o gli altrui; o seduto in una soave contemplazione ammirava il lento succedere della notte alla piena luce del Sole, e l’azurro dei cieli che si spiegava sopra il creato, come un manto uniforme tempestato di gemme: o, precorrendo l’alba, beavasi ai canti degli augelletti che salutavano il Sole nascente, e tutta vestía d’esultanza la vergine anima sua. Or avvenne appunto in uno di questi romiti passeggi, che su’l far della primavera, allorchè (cessato costume) i giovani e le giovanette della città si portavano alla campagna a godervi delle calde ricotte, schivo dello strepito e degli allegri canti, avviatosi per aperto d’un’ampia pianura che tutta a verde smaltavano le fresche erbette, e che cingevano varj salici come di amica ghirlanda, occhio vagante di lui affisossi sott’uno di quelli in fanciulla che sedeva soletta, sparsa su gli omeri e su ’l petto la bionda capigliatura ricchissima che le scendeva sino a terra, e là posava avvolta in lucide annella. E per questa chioma cinquecento Sonetti compose; e in essi troviamo trasfuso tutto l’affetto il più delicato, tuttequante le grazie del veneziano dialetto 3. Basti per ora il fin quì detto; in appresso ritorneremo a farne menzione.
Proclamato Dottore in Filosofia, non fu di questo unicamente contento: si sentiva educato pe ’l bene della umana famiglia; e diedesi perciò volonteroso allo studio della Medicina. In questa carriera spiegò sempre più l’acutezza di quell’ingegno di cui era mirabilmente dotato, si acquistò la benivoglienza de’ suoi maestri. venne caramente diletto dall’illustre Prof Comparetti, il quale alla visita degli ammalati costumava porgere speciali interrogazioni al Mazzolà, e oltremodo lodavasi della bella e riflessivamente del suo allievo. Forniva il quinto lustro dell’età sua, quando fu salutato Sacerdote d’Igèa. In mezzo alle tante controversie della Medicina a’ suoi tempi, egli seppe con fino criterio eleggere quà e la le dottrine più pure ed accreditate, quelle cioè che meglio rispondessero ai fatti, rendendo consapevole il Medico dell’alto suo ministero. E quì ci sia lecito rinovare il nostro dolore, se li anni non gli bastarono a dettare, com’ei s’aveva proposto, le vicende della Medicina a’ suoi tempi; o se pur egli aveva effettuato quel suo disegno, non potremo non dolerci con quella modestia che lui vivente nascose l’Opera sua, e ne originò in appresso la perdita. Vorremo noi quì tacere il grande suo amore all’esercizio della sua professione? Passeremo sotto silenzio la generosa carità del suo cuore, per la quale conducevasi tuttoquanto commosso alla casuccia singolarmente del povero, dove altre voci non parlano che di sventura, di dolore, di bisogno e di morte? Oh! diciamolo, diciamolo pur francamente, che alla sua vista, quasi a visita di Angelo, le meste fronti rasserenavansi, e tosto la povertà guardava confusa allontanare le sue angustie, infermità le sue pene, i suoi terrori la morte. Onoriamo, o mio dolce Amico, e con noi tutti i giovani Medici onorino la memoria di questo amico degli uomini, il cui nome sonerà sempre caro nel petto de’ buoni suoi cittadini; e tutte le azioni della nostra vita abbiano a rispondere, e a conformarsi all’esempio delle sue rare virtudi. La casa De Angelis, che adunava allora quotidianamente nel suo seno alcuni tra i letterati più chiari di questa città, ogni giorno accoglieva lietissima il Mazzolà, il quale ivi convenia con gli amici, tra cui l’Ab. Ruzzini, il Sibilliato, il Susanetto, dai quali l’egregio cuore di lui ebbe sempre corrispondenza di forte e leale amicizia. Ed ivi rifuggiva quasi a riposo delle sue indefesse fatiche; e il precedeva il racconto e la lode di quelle opere di carità, di quell’ottimo cuore: e ripetevasi spesso com’ei ridonasse salute, e ajuto porgesse a qualche tormentata famiglia. Ma queste lodi si tacevano sempre alla sua venuta, perchè la modestia di lui non avrebbe giammai concesso il suono di sì giuste e riconoscenti parole, il Dott. Celega, a cui era unito co’ più stretti rapporti d’amore, lo desiderava sempre al suo fianco, per apprendere, com’egli ebbe tante volte occasione di significare, la sua prudente riserva, e la tardezza assennata con la quale inchinavasi a nuove teorie nell’esercizio della sua professione. Grato a tanto affetto, il Mazzolà lasciò in retaggio a questo degno suo amico buona parte della voluminosa e scelta sua libreria. Per accennare in brevi parole la bellezza del cuore di lui, dirò finalmente, che figlio a signorile famiglia, Dottore in Filosofia e in Medicina, e più tardi anche in ambe le Leggi, abitando nel centro della città a san Lorenzo, si tolse per proprio consiglio da via sì frequentata, ed elesse per soggiorno la casa Berengani nel borgo Ognisanti, ad unico oggetto di condurre sua vita coi tanti poveri di quella contrada, sovvenendoli di consiglio e di opera nelle loro malatie, e togliendoli spesso dallo squalore in cui stavano sepolti 4. Un uomo di tanta pietà ha sempre diritto alla publica estimazione.
Accompagnato così il Mazzolà dalla culla all’esercizio della sua professione, fatta per lui mezzo a continue opere di carità, verremo adesso a considerarlo siccome poeta. Possedeva egli per la poesia, come notammo più sopra, le più felici disposizioni; e ardentemente innamorato della dorata treccia di una fanciulla veneziana, ch’egli celebra co ’l titolo I Cavei de Nina, in lode della stessa treccia aveva dettati nulla meno che cinquecento Sonetti; dei quali l’Ab. Pier-Antonio Meneghelli, compatriota ed amico del Mazzolà, ne sceglieva cento, e li publicava 5.
Ai tempi del Mazzolà era in grandissima voga la poesia dettata in dialetto; e i nomi del Gritti, del Lamberti, di Pastò, di Carlo Goldoni, di Matteo Venier e del Buratti, che pur tuttora mantengonsi in bella celebrità, sedevano a maestri di sì leggiadra poesia. La voce melodiosa di qualche Ninfa delle nostre lagune ripete ancora soavemente (senza offendere per nulla il progresso) le spiritose canzoncine dei nominati scrittori. E nel vernacolo veneziano furono adoperati dialetti diversi: chi amò il nobile e culto, chi quello del barcajuolo, e chi quello della plebe minuta: e a seconda dei dialetti, spiritosi e svelti pur lutti. vi trattarono soggetti più o meno elevati; e si uscì talora dal giro della satira, della favola e della novelletta, per trattare argomenti di sentita importanza. La grazia ed i sali del patrio dialetto brillano lietamente nei Sonetti del Mazzolà, parlando dei quali uno dei grandi ingegni che tanto onorano la riconoscente ed illustre Bassano, Bartolomeo Gamba, francamente affermava non invidiar essi per niente la celebre Bella mano di Giusto de Conti. Certe particolarità del cuore, che sfuggono spesso ai più esercitati scrittori, stanno nei Sonetti del Mazzolà non dirò raccolte, ma ingegnosamente scolpite; e le sue poesie fioriscono sempre di bei versi e pensieri, ed appajono veramente figlie più del cuore, che dell’ingegno. Ond’è che dalle sue poche ma auree produzioni, dettate così in dialetto che nella lingua comune d’Italia (produzioni della cui scarsità è ad accusarsi così la brevità della vita di lui, che quella modestia che concedevagli appena di comunicare talvolta gli scritti suoi a taluno de’ più teneri amici). ben chiaramente emerge aver egli meritato seggio onorevole nell’Italiano Parnaso 6.
Il Mazzolà visse celibe, poichè l’amore per la Nina da lui cantata occupavagli l’anima, e lo distoglieva da altre affezioni, da prima alimentato da speranza ingannevole. e poscia deluso, chè l’amata fanciulla stringevasi ad altre nozze; e questo amore non cessò mai dall’amareggiarlo: cosicchè se alcuno gli rammemorava quest’affetto e quel nome, la fronte di lui velavasi di mestizia, e morivagli il sorriso su le labra. Egli non se ne dolse, non si lamentò; ma rifuggì sempre in appresso dalle lusinghe di un’affezione che avea sperimentata amarissima, e alle cure e alle delizie della famiglia sostituì quelle della carità e della scienza.
Quest uomo di angelici costumi, mite, e veramente melancolico, era nella società degli amici affabile, umano, ed infiorava i suoi detti di sali e scherzi graziosi; dimodochè nell’udirlo brillava su ’l volto agli ascoltatori quel riso e quella letizia che rare volte potevano avvisarsi su le labra e su la fronte di lui. Così tra il ristretto novero degli amici e tra l’ampio dei poveri festeggiato ed amato viveva, quando assalito da febre putrido-reumatica nell’età di anni 51, dicendo ai dolenti amici accorsi attorno al suo letto inspirati versi di rassegnazione e di lode al suo Creatore, passò agli eterni riposi li 30 Maggio 1804, dopo di avere spesi i suoi giorni nella imperturbabilità del filosofo, nella rassegnazione del Cristiano, e nelle assidue fatiche di sua professione; chè se pure venne còlto da’ guai della vita, non gli mancò mai una maschia virtù a sostenerli. Il compianto dei poveri e di tutta Padova diede alle funebri pompe quella religiosa e mesta solennità ch’è il supremo doloroso saluto della patria alle spoglie dei più cari tra’ figli suoi.
ANNOTAZIONI
- ↑ [p. 25 modifica]La gratitudime mia non sarà mai significata a bastanza all’egregio amico Agostino Dott. Palesa, il quale come legato di parentela alla famiglia De Angelis, nella cui casa conveniva quotidianamente il Mazzolà, mi porse tante e minute notizie su la vita e su gli studj di questo Medico, e m’offerse anche una doviziosa raccolta di poesie publicate e manoscritte dello stesso, sollecitandomi affettuoso a levare dall’oblio l’illustre suo compatriota, di cui, oltre a molti scritti, possede anche il ritratto in miniatura.
- ↑ [p. 25 modifica]Tra gli altri che ricordano questo disegno del Mazzolà, mi gode l’animo d’annoverare Pietro Bettanini chimico distintissimo, di fresco rapito alle scienze ed ai poveri, che in lui ebbero a perdere un amoroso benefattore.
- ↑ [p. 25 modifica]Collezione delle migliori Opere in dialetto veneziano, per cura di Bartolomeo Gamba. Tipografia d’Alvisopoli, 1817.
- ↑ [p. 25 modifica]Della gentile accoglienza ch’io m’ebbi da Monsignor Pila, e de’ suoi modi cortesi, avrò sempre riconoscente memoria. Conobbe il Mazzolà: del cuore e dell’ingegno di lui grandi cose mi disse.
- ↑ [p. 25 modifica]Cinquecento Sonetti! Ciò rileviamo da un breve cenno del Meneghelli e del Gamba, che precede i Cento Sonetti.
- ↑ [p. 25 modifica]Il Vedova, nella Biografia degli Scrittori Padovani, fa onorata menzione del Mazzolà e de’ suoi scritti. Ai registrati dal Vedova aggiungeremo gli avuti dall’amicizia.
I Cavei de Nina. Padova, Tip. Gonzatti. — Cantate nella monacazione di Elisabetta Zucchella (senz’anno). — Capitoli due didascalici per Monaca. 1802, in 8.° — In una Raccolta di solenni Componimenti publicati dai [p. 26 modifica]fratelli Penada l’anno 1798 stanno molte Canzoni ed altre poesie di merito distinto. — Poesie volanti edite ed inedite. Fra queste ultime la presente, che noi ci faciamo un pregio di quì publicare, e che sembra avere vaticinato il Porto-franco quasi mezzo secolo prima che la Clemenza Sovrana lo concedesse.
VENEZIA
Una volta ghe giera una donzela
Parona de moltissime città,
E, benchè vechia antiga, tanto bela,
Che la compagna al mondo no se dà:
De una saviezza che no gha sorela,
D’una prudenza e d’una nobiltà,
Che i primi gran Monarchi la stimava;
E i so popoli tutti l’adorava.
Ma cascada co ’l tempo in difetini,
La xe dopo passada al gran difeto
De consumar in lusso quei zecchini
Che doveva servir a un altro ogeto:
Ha scomenzà a lagnarse i citadini,
Savendo che l’erario giera neto,
Quantunque che fra dazj e imposizion
Ogni mese i ghe dava un bel milion.
Ma pur con tuto ciò i se contentava,
Perchè i viveva quieti senza guera;
Anzi tuti d’acordo i protestava,
Che zente più felice no ghe giera:
De fato con clemenza la i tratava,
E per lori spirava primavera;
Se da Provenza no se leva un vento
Che tutti l’impenisse de spavento.
Un fio de una Republica nascente
Sta bella puta pensa de violar;
Un omo de un esterno conveniente,
Ma un cuor che de pezor no se pol dar:
El se ghe acosta, ma co tanta zente,
Che farave un Sanson ispiritar;
Ma furbo come ’l xe, pien de malizia,
El finze de tratarla in amicizia.
Cossa mo fà sta povera creatura,
Inteso sto imperioso zarlatan?
Da gnoca la ghe crede a tal mesura,
Che in bota del so cuor la ’l fà Sovran;
E sempre più sto dreto l’assecura,
Con modi che pareva da Cristian,
Che in gnente afato el la molestaria,
Ma che anzi più signora el la faria.
Intanto co un esercito infinito
El magna e’ l beve sempre a le so spale,
Finchè la bona fiola tuto ha frito,
Dandoghe infin l’arzento co le pale;
Ma st’Omo che xe stà sempre pulito,
Fedendo che la resta spogia in cale,
L’ha fato in bota l’ato de vertù
De farla d’altri per salvarse lu.
Co la s’ha visto tanto vilipesa,
La ghe dise a sto degno capital:
Oh questa pò no s’averà più intesa,
Che se concambia el ben co tanto mal.
Ma lu non se fa gnente de sorpresa,
E con la so franchezza natural
El se scusa disendoghe: Per dio!
Sto desegno, sorela, no xe mio.
Ah can, ah traditor, sassin indegno!
Sogiunge la gramazza inviperia;
Dopo che ti m’ha tolto onor e regno,
Ancora ti gha cuor de darme via?
Ma lu co tuta flema e senza sdegno
Ghe risponde: Mo cara, vita mia,
Vedo i to ossi, che no so che farne,
Dopo che ho rosegà tuta la carne.
Chi mai po l’ha acquistada? Un comprador
Che un dì ghe meterà la carne atorno,
E che la vestirà co più splendor;
Nè xe molto lontan sto fausto zorno....
Voleu saver chi ’l xe? ’L xe un gran Signor,
Un invitto Monarca, tuto adorno
D’ogni virtù e d’ogni cortesia,
Seu contenti...? Anca mi. — Bondì, sioria.