Della tirannide (Alfieri, 1927)/Libro secondo/Capitolo IV
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Capitolo Quarto
Come si debba morire nella tirannide.
Benché la piú verace gloria, cioè quella di farsi utile con alte imprese alla patria ed ai concittadini, non possa aver luogo in chi, nato nella tirannide, inoperoso per forza ci vive, nessuno tuttavia può contendere a chi ne avesse il nobile ed ardente desiderio, la gloria di morire da libero, abbenché pur nato servo. Questa gloria, quantunque ella paia inutile ad altrui, riesce nondimeno utilissima sempre, per mezzo del sublime esempio, e come rarissima, Tacito, quell’alto conoscitore degli uomini, la giudica pure esser somma. Alla eroica morte di Trasea, di Seneca, di Cremuzio e di molti altri romani proscritti dai loro primi tiranni, altro infatti non mancava che una piú spontanea cagione, per agguagliar la virtú di costoro a quella dei Curzi, dei Deci, e dei Regoli. E siccome, lá dove ci è patria e libertá, la virtú in sommo grado sta nel difenderla e morire per essa, cosí nella immobilmente radicata tirannide non vi può essere maggior gloria che di generosamente morire per non viver servo.
Parmi adunque che, nei nostri scellerati governi, i pochissimi uomini virtuosi e pensanti vi debbano vivere da prudenti, finché la prudenza non degenera in viltá; e morire da forti, ogniqualvolta la fortuna o la ragione a ciò li costringa. Un cotal poco verrá ammendata cosí, con una libera e chiara morte, la trapassata obbrobriosa vita servile.