Della tirannide (Alfieri, 1927)/Libro secondo/Capitolo V
Questo testo è completo. |
◄ | Libro secondo - Capitolo IV | Libro secondo - Capitolo VI | ► |
Capitolo Quinto
Fino a qual punto si possa sopportar la tirannide.
Ma fino a qual segno si possa sopportar l’oppressione di un tirannico governo, difficile riesce a prefiggersi; poiché non a tutti i popoli né a tutti gli individui gli stessi oltraggi portano un egual colpo. Nondimeno, parlando io sempre a coloro che non meritando oltraggio nessuno, vivissimamente quindi sentono nel piú profondo cuore i piú leggieri eziandio; ed essendo costoro i pochissimi (che se tali i moltissimi fossero, immediatamente ogni pubblico oltraggiator cesserebbe) a costoro dico che si può da lor sopportare che il tiranno tolga loro gli averi, perché nessun privato avere vale quell’estremo universale scompiglio che ne potrebbe nascere dalla loro dubbia vendetta. Cosí perversi sono i presenti tempi che da una privata vendetta, ancorché felicemente eseguita, non ne potrebbe pur nascere mai nessun vero permanente bene pel pubblico, ma se gli potrebbe accrescer bensí moltissimo il danno. Onde, volendo che i buoni, nella stessa tirannide, siano, per quanto essere il possano, cittadini; e volendo che ai loro conservi o giovino o inutilmente almeno non nuocano, ai buoni non darei mai per consiglio di sturbare inutilmente la pace, o sia il sopore di tutti, per far vendetta delle loro tolte sostanze.
Ma le offese di sangue nella persona dei piú stretti parenti od amici, allorch’elle siano manifestamente ingiuste ed atroci: e cosí le offese nel proprio verace onore, io non ardirei mai consigliare a chi ha faccia d’uomo di tollerarle. Si può vivere senza le sostanze, perché nessuno muore di necessitá; e perché l’uomo, per l’esser povero, non riesce perciò mai vile a se stesso, ove egli non lo sia divenuto pe’ suoi vizi e reitá; ma non si può sopravvivere alla perdita sforzata ed ingiusta di una teneramente amata persona; né, molto meno, alla perdita del proprio onore. Quindi, dovendo assolutamente un tal uomo morire, ed essendo estrema la ingiuria ricevuta, non può egli né dée piú allora conservare rispetti; e che che avvenire ne possa, il forte dée sempre morir vendicato; e chi nulla teme può tutto.
Per unica prova di quanto asserisco, addurrò la sola riflessione che di quante tirannidi sono state distrutte, o di quanti tiranni sono stati spenti, per destare quel primo impeto universale necessarissimo a ciò, non vi fu mai altra piú incalzante ragione che le ingiurie fatte dal tiranno nell’onore principalmente, quindi nel sangue, poi nell’avere. Questo insegnamento non è dunque mio; ma egli sta nella natura degli uomini tutti. Ma pure, a chi dovesse e volesse vendicare una simile ingiuria, consiglierei pur sempre di farsi solo all’impresa, e di omettere intieramente ogni pensiero della propria salvezza, e come non alto e come vano e come sempre dannoso ad ogni magnanima importante vendetta. E chi non si sente capace di questa totale omissione di se stesso non si reputi stoltamente capace né degno di eseguire una sí alta vendetta; e si persuada che meritava egli veramente l’oltraggio che ha ricevuto, e pazientemente quindi sel goda. Ma se l’offeso si trova del pari dotato di alto animo e d’illuminato intelletto, se da quella sua privata vendetta ne ardisce egli concepire e sperare la universale permanente libertá, tanto piú allora si muova egli (ma sempre pur solo) a compiere la prima e la piú importante impresa; ometta egli parimente ogni pensiero della propria salvezza; tutte quelle risentite parole che, con grave ed inutil pericolo per sé e per l’impresa, egli avrebbe mosse agli amici per indurgli a congiurare con lui, tutte le cangi in un solo importantissimo, tacito e ben assestato colpo: e lasci poi all’effetto che ne dée necessariamente ridondare l’incarico di estendere e di corroborar la congiura; e al solo destino ogni cura della propria salvezza abbandoni. Ma cogli esempli piú estesamente mi spiego.
Il popolo di Roma si sollevò contro ai tiranni, congiurò felicemente contr’essi, e la tirannide al tutto distrusse, allorché finalmente si mosse, dopo tante altre battiture, colpito dal compassionevole atroce spettacolo di Lucrezia contaminata dal tiranno, e di propria mano svenata. Ma se Lucrezia non avesse in se stessa generosamente compiuta la prima vendetta, egli è da credersi che Collatino o Bruto, inutilmente forse, e con grave dubbio e pericolo, avrebbero congiurato contro ai tiranni; perché il popolo, e il piú degli uomini, non son mai commossi, né per metá pure, dalle piú convincenti ragioni, quanto lo sono da una giusta e compiuta vendetta; massimamente allorché ad essa si aggiunge un qualche spettacolo terribile e sanguinoso che, ai lori occhi apprestatosi, i loro cuori fortemente riscuota. Se dunque Lucrezia non si fosse uccisa da sé, Collatino, come il piú fieramente oltraggiato, avrebbe dovuto perdere risolutamente se stesso uccidendo l’adultero tiranno; se egli in tale impresa periva, doveva lasciar poi a Bruto l’incarico di muovere, per via di quella sua giusta uccisione, il popolo a libertá e a furore. Ma se non fosse stato cosí pubblico ed importante quest’ultimo tirannico oltraggio, e se, per essere questo aggiunto a molti altri, non fosse stata ormai matura la liberazione del popolo di Roma, i parenti e gli amici di Collatino avrebbero forse congiurato, ma contro i soli Tarquinii; in vece che Collatino, senza punto congiurare con altri, avrebbe egli solo certamente potuto uccidere il tiranno, e quindi forse anche salvare se stesso; e, congiunto poscia con Bruto, avrebbe liberato anco Roma.
È dunque da notarsi in codesto accidente che l’uomo oltraggiato gravemente nella tirannide, non dée mai da prima congiurare con altri che con se stesso, perché almeno assicura egli cosí la propria privata vendetta; e, con quel terribile spettacolo che egli appresta ai suoi cittadini, lascia in qualche aspetto di probabilitá, e assai piú matura, la pubblica a chi la volesse e sapesse eseguirla. All’opposto, col congiurare in molti per fare la prima privata vendetta, elle si perdono spessissimo entrambe. Quell’uomo dunque che capace si reputa di ordire e spingere una alta e giovevol congiura, il cui fine debba essere la vera politica libertá, non la imprenda giammai se non se dopo moltissimi universali oltraggi fatti dal tiranno, e immediatamente dopo una qualche atroce privata vendetta contr’essi, felicemente eseguita da uno dei gravemente oltraggiati. E cosí, chi si sente davvero capace di solennemente vendicare un proprio privato importantissimo oltraggio, senza cercarsi compagni, altamente e pienamente lo vendichi, e lasci poscia ordir la congiura da chi vien dopo; che s’ella riesce a buon fine, l’onore ne sará pur sempre in gran parte anche suo; bench’egli rimanesse spento giá prima; e se la pubblica consecutiva congiura poi non riesce, tanto maggiore ne risulterá a lui privato la gloria e la maraviglia degli uomini, che vedranno la sua privata congiura aver da lui solo ottenuto un pienissimo effetto.
Ma le congiure, ancor ch’elle riescano, hanno per lo piú funestissime conseguenze; perché elle si fanno quasi sempre contro al tiranno e non contro la tirannide. Onde, per vendicare una privata ingiuria, si moltiplicano senza alcun pro gl’infelici; e o sia che il tiranno ne scampi, o sia che un nuovo gli succeda, si viene ad ogni modo per quella privata vendetta a centuplicar la tirannide e la pubblica calamitá.
Quell’uomo adunque, che dal tiranno riceve una mortale ingiuria nel sangue o nell’onore, si dée figurare che il tiranno lo abbia condannato inevitabilmente a morire; ma che nella impossibilitá in cui egli è di scamparne, gli rimane pure la intera possibilitá di vendicarsene prima e di non morir quindi infame del tutto. Né altro egli deve pensare in quel punto, se non che, tra i precetti del tiranno, il primo e il solo non mai trasgredito da lui si è di vendicarsi di quelli che ha offeso egli stesso. Sia dunque il primo precetto, di chi piú gravemente è stato offeso da lui, il prevenire a ogni costo con la sua giusta vendetta la non giusta e feroce d’altrui.