Della storia d'Italia dalle origini fino ai nostri giorni/Libro settimo/35. Continua
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35. Continua. — Tra il 1811 e il 1812, stoltizzò Napoleone non solamente nello scopo, ma ne’ mezzi stessi oramai di sua politica. Egli aveva fino allora corteggiato Alessandro; ed ora ei sacrificò quell’alleanza e quell’amicizia alla stoltezza del suo sistema continentale contro ad Inghilterra, volle sforzarvi Alessandro che si ribellò alla prepotenza, e ne seguí la guerra. Ed egli avea corteggiati i polacchi; ed ora ei li sacrificò, non li restaurò per riguardi ad Austria, posseditrice d’una lor provincia. Poi, aggiugnendo errori ad errori, fece [24 febbraio, 14 marzo] due trattati d’alleanza con Prussia ed Austria, prendendo un trentamila uomini soli a ciascuna, e cosí lasciandosele a spalle quasi intiere e mal affette, anzi frementi. Era colmo di disprezzo delle passioni, degli interessi, delle opinioni altrui: ma fu insieme colmo d’inganno. Ei disse e credette far un’irruzione dell’Europa occidentale contro all’orientale, della civiltá contro alla barbarie; ma la civiltá, l’indipendenza stavano allora per Russia; e cosí questa vinse. Napoleone (trattenuto oltre all’intento a Parigi da un primo di quegli accidenti del cielo che mostrano piú chiaramente il dito di Dio, dal timor di una carestia) passò il Niemen [23 giugno]; entrò a Vilna [28], a Vitepsk [28 luglio], a Smolensko [17 agosto], dopo combattimenti e battaglie via via crescenti quanto piú avanzava. E cosí combatté la maggiore alla Moscowa [7 settembre]; e la vinse, ed entrò a Mosca [14]. — Ma lá, presso all’Asia, fu il termine di sua fortuna. Né soli noi, pochi sorviventi di quella generazione, ma le generazioni nuove sanno e sapran gran tempo fin da fanciulli, tutti i fatti di quella quasi epopea de’ giganti moderni: l’incendio di Mosca, gl’indugi di Napoleone, sue speranze di aver pace; sua partenza [19 ottobre], la ritirata di quelle turbe d’eroi intimoriti, l’inverno precoce, il cielo nemico, i campi nevosi, le vie perdute all’innanzi, segnate addietro da’ morti e morenti; i cosacchi, le orde asiatiche spingenti e taglianti l’allungata fila; l’eroismo di Ney e tanti altri; Napoleone impavido, e che chiamava demoralizzati coloro che per lui soffrendo, non soffrivano come lui. Al settimo dí della ritirata, quando erano intiere per anco le divisioni, fu la battaglia piú ordinata che ancor vi si facesse, quella di Maloiaroslavetz [24 ottobre]. E fu vinta, tanto almeno da prolungar la ritirata, dall’armata d’Italia capitanata dal viceré. Ai 28 novembre i resti passarono la Beresina, combattendo ancora, disperdendosi poi. Napoleone fuggí l’irremediabile calamitá, e fu a Parigi [18 dicembre]. Gioacchino Murat re di Napoli indugiò qualche tempo a raccozzar i rimasugli; ma un decimo forse dei cinquecento e piú mila uomini che avean passato il Niemen. Perironvi, proporzionatamente piú che degli altri, i meridionali, i fratelli nostri; tu vi perivi quasi fanciullo ancora, ed osservato pur per valore da quei vecchi guerrieri, o Ferdinando mio, cresciuto all’arti, alle lettere, ad ogni bellezza, ad ogni amore, a quel d’Italia, per cui non moristi; per cui, del tuo nome, di tua virtú, di tua gioventú, di tua bellezza moriva un altro poi, anche piú mio. — Ed anch’egli, Gioacchino, lasciò poco appresso quella trista e quasi inutile ritirata; e rimase il comando al viceré d’Italia, il quale ordinolla come poté, e condussela per tutto l’inverno tra il 1813 e il 1814 fino all’Elba. Prussia intanto s’era sollevata, venuto il tempo, contro all’oppressore di lei, statole piú grave che a nessun altro. Austria, sempre piú indugiante, s’era solamente ritratta dall’odiato alleato, ed armava e minacciava: e cosí Germania tutta, a fianco, a spalle dell’esercito francese. Questo fu il bel tempo di Germania, quand’ella seppe valersi dell’occasione per rivendicarsi in indipendenza; quando seppero unirsi a ciò principi e popoli; quando i principi seppero promettere concessioni, e i popoli fidarsi a quelle promesse, che non è vero sieno state, ed anche meno sien per essere, inadempiute tutte. Gli spagnuoli pure avean ciò saputo, e v’aveano avuto tanto piú merito, che era assente e mediocre il principe loro. Gl’italiani soli nol seppero; e perciò i figli loro rimangon l’ultima fra le nazioni della cristianitá europea; ché in quegli anni di cui narriamo furono poste le fondamenta di quell’edifizio europeo restaurato che ancor dura. — Ai 15 aprile 1813, Napoleone ripartí di Parigi per riprendere il comando della grande armata; e pari militarmente o superiore a se stesso, vinse al 1º maggio russi e prussiani in gran battaglia a Lutzen; addí 20 e 21 a Bautzen. Fecesi tregua, trattossi pace, non fu possibile niun accordo; si ricominciò la guerra, unita ora Austria alla crescente alleanza contra Francia. Addí 27 agosto, russi, prussiani ed austriaci assalgono Napoleone in Dresda, e sono vinti, respinti; e vi muor Moreau, mal venuto dall’esilio d’America a porsi tra le file dei nemici di suo paese. Ma vinto e preso pochi dí appresso Vandamme con un grosso corpo francese in Boemia, e riaffollandosi gli eserciti alleati contro a Napoleone, ei poté sí tenerli a bada alcun tempo; ma soverchiato finalmente dal numero, fu sforzato a ritrarsi. E concentrato l’esercito a Lipsia, fu vinto ivi in una battaglia di tre dí [16, 17, 18 ottobre]. Questo fu il fine, questa la piú bella battaglia della grande armata. Alcuni di que’ panegiristi che cercando vanti falsi trascuran i veri, e guastan cosí fin le glorie degli eroi, vantano la grand’armata quasi non vinta mai; se non dalle stagioni, dal vento o che so io. Fu vinta essa, ma non dal vento, fu vinta dal numero de’ nemici, dagli abbandoni degli alleati, dalla spossatezza propria; fu vinta, magnificamente perdurando, che è la piú grande delle glorie militari, politiche, umane. Ed io intendo rivendicare parte di quella gloria per li nostri italiani che lá perirono, numerosi, prodi, fedeli, degni di lor maestri di guerra. Sventuratamente, i superstiti credettero essere stati sacrificati da questi, dietro a un ponte rotto nel ritirarsi; e se n’accese lor ira, ed io scrittore li udii pochi dí appresso a Magonza. E questo ed altri disprezzi che credettero aver sofferti da Napoleone o dal viceré, furono causa dello scostarsi gli animi di molti principali dell’armata d’Italia da que’ due principi, e dell’abbandonar l’ultimo pochi mesi appresso mal generosamente, mal utilmente. L’Italia di quei tempi non seppe né respingere i Napoleonidi come gli spagnuoli, né scuoterli a tempo come i tedeschi, né serbarli quando sarebber diventati italiani. E cosí, dubitando, chiacchierando, tumultuando e non operando all’occasione, ella perdette questa che fu pure delle piú belle. Se gl’italiani avesser saputo non guardar addietro ma all’innanzi, non a vendetta ma a perdonare, dimenticare, ed alle occasioni riunirsi a coloro che le tengono in mano, gran tempo è che sarebbero indipendenti. Quando il sapranno? — Ad ogni modo, dopo la gloriosa ma finale sconfitta di Lipsia, si ritirarono i francesi poco men disordinati che in Russia, attraverso Germania sollevata, e vinsero un’ultima volta ad Hanau [30 ottobre] i bavaresi che tagliavano il passo. Passati, si raccolsero dietro al Reno, e Napoleone tornò a Parigi. Intanto, era tornato il viceré al regno d’Italia fin da dopo Lutzen, Gioacchino a Napoli dopo Lipsia. E il primo avea raccolto un esercito di francesi e italiani, e portatolo oltre ai limiti del regno nelle province illiriche, fin sulla Sava e la Drava [agosto]. Ma ivi pure era un forte esercito nemico; ne erano da tutte parti. E cosí, il franco-italico ebbe a ritrarsi ricalcando addietro lentamente quella via, corsa avanzando tante volte da pochi anni; dalle Alpi all’Isonzo, al Tagliamento, alla Piave [11-31 ottobre], e finalmente all’Adige e Verona [9 novembre]. E lí si fermava, ed indi riusciva a vincere una volta ancora a Caldiero [15]; e lí intorno perdurava poi e guerreggiava tutto quell’inverno. Non cosí Gioacchino; il quale, giunto a Napoli [5 novembre], trattò con gli alleati nemici di Napoleone, e ragunando un esercito napoletano, occupava Roma, Toscana, Ancona, Bologna, lasciate da’ francesi; mentre una squadra inglese veleggiava minacciando e tentando sbarchi sulle coste di Toscana [dicembre]. E parlava Gioacchino d’indipendenza italiana; e di essa pure gli inglesi. Ma gl’italiani non badavano al primo; ché la generosa parola, per farsi ascoltare e trarsi addietro gli animi e le braccia, vuol esser bandita generosamente da uomini generosi; né era tale certamente Gioacchino in quel momento, che tradiva Napoleone suo creatore. E quanto agli inglesi, essi, per vero dire, fin dal giugno dell’anno addietro, avean fatto dare una costituzione rappresentativa simile alla loro in Sicilia da re Ferdinando; cosicché Carolina, nemica di tali novitá, se n’era fuggita per Costantinopoli ad Austria, e re Ferdinando avea lasciato il governo a suo figliuolo. Ma, fosse colpa degli inglesi dispregiatori talora ed offensori de’ popoli che beneficano, o degli italiani pregiudicati contro di essi per le continue calunnie mosse loro da Napoleone e da’ francesi di que’ tempi, o che in somma non fosse entrato bene ancora il gran pensiero negli animi italiani, il fatto sta che non si mossero questi nemmeno a quel grido d’indipendenza. I tempi, anche vicini, sono talora diversissimi tra sé. Corsi pochi anni, quel grido sollevò l’Italia intiera: corsi pochi altri, ella, forse pur intiera, combatterá. — Finalmente, addí 20 dicembre 813, gli alleati passarono il Reno, entrarono in Francia; guardinghi e quasi tementi, principi e generali; ebbre di trionfo e vendetta (ma almen vendetta dopo la liberazione) le popolazioni straniere; massime le germaniche affollate in quegli eserciti. I francesi, spossati da ventidue anni di guerra, non difesero la loro indipendenza sotto al signore, come avean fatto nuovi e liberi. Napoleone partí a’ 25 gennaio 1814 da Parigi; combatté e vinse ogni dí per due mesi con cuore, con mente indomita, con arte degna del giovane generale del 1796. A Brienne, a Champaubert, a Montmirail, a Vauchamp furono giornate famose. Ma scemavano via via sue file, stringevasi suo campo di guerra intorno a Parigi; e si rinnovavano, all’incontro, s’accavallavano gli eserciti stranieri, e lo stringevano. Al fin di marzo ideò portarsi a spalle degli alleati, correr Francia orientale, raccogliervi le guarnigioni lasciate colá, e l’armata d’Italia. Ma fu preso egli sul tempo: gli alleati precipitarono su Parigi, e addí 30 vinsero sotto alle mura facilmente re Giuseppe e Marmont, e addí 31 entrarono. E cosí cadde quell’uomo, di cui niuno potrá mai nascer piú grande per facoltá naturali, militari ed anche politiche; cadde, per l’error solo di non aver fondata sua potenza, addentro, sulla libertá, di fuori, sulla indipendenza delle nazioni; cioè, dentro e fuori, sull’amore interessato dei popoli. Vantossi egli, vantarono gli adulatori di sua sventura, che egli pure fosse caduto per quel caso imprevedibile di fortuna, quell’inverno precoce, quel vento settentrionale di Russia. Ma il cader per un caso, per un vento, mostrerebbe tanto piú che erano poco profonde le fondamenta di sua potenza. E poi, non è vero nemmen questo. Anche Napoleone cadde dopo una perduranza militarmente magnifica. Ma la perduranza, che serve sempre alle nazioni perché elle si rinnovellano, non serve sempre a un esercito che non si può rinnovellare, e non serve mai a un uomo che non sappia aver seco una nazione. Inutile sarebbe poi moltiplicar qui particolari e date, piú o men vergognose a quella nazione vicina nostra. La severitá è piú ingrata allo scrittore che a’ leggitori; né a ciò è obbligato se non per la patria. Del resto, tutte le nazioni s’assomigliano quando s’avviliscono; e s’avviliscon tutte, quando (colpevoli od anche incolpevoli) elle son cadute in braccio a’ stranieri. Il senato, conservatore dell’imperio, lo distrusse [2 aprile]. Napoleone abdicò [11], fu portato via. Rientrarono i Borboni, Luigi XVIII. — E intanto, in Italia, il viceré avea continuata sua bella difesa: Gioacchino suo brutto avanzarsi. Il primo, combattendo e talor vincendo contra piú forti, s’era ritratto non piú che da Adige ad Adda e Taro, in due mesi. Il secondo, dichiaratosi contra il viceré, s’avanzava a Piacenza. Un corpo inglese era sbarcato a Livorno [6 aprile]. Finalmente giunte le nuove di Parigi, firmavasi un armistizio [16 aprile], per cui le truppe francesi s’incamminarono a lasciar Italia. Rimaneva il governo italiano, il senato a Milano. Addí 20 deliberava; e molti volean re Eugenio Beauharnais. Una sommossa di quegli uomini che non badano a perder la patria per isfogar un’ira, una vendetta o una invidia, empiè le vie, spaventò il senato, uccise Prina ministro delle finanze. Dio perdoni a tanta (per non dir altro) stoltezza! Certo, niuna fu maggiore mai. Dicono che il viceré non era amato, per alcune parole dette contro agli italiani; forse quelle parole furono scusate in quel dí. D’allora in poi fu finito il regno d’Italia, lasciato all’occupante. Gli austriaci entrarono a Milano [28]. Murat rientrò a Napoli [2 maggio]. Vittorio Emmanuele re di Sardegna (succeduto per la rinuncia di Carlo Emmanuele IV, 22 giugno 1802) sbarcò in Genova [12 maggio], entrò in Torino [20]. Pio VII a Roma [24]. E addí 30 fu firmato il trattato di Parigi, per cui, restituito il regno di Francia negli antichi limiti, fu restituita casa Savoia ne’ suoi Stati continentali, salvo una porzione di Savoia lasciata allora a Francia; Parma e Piacenza date a Maria Luisa imperatrice e al re di Roma suo figliuolo; Modena, a Francesco arciduca d’Austria, erede di Ercole Rinaldo ultimo duca Estense, morto duca del Brisgau [-1803]; restituita Toscana a Ferdinando III; restituiti gli Stati pontifici al papa; lasciati Murat in Napoli, Ferdinando IV in Sicilia; lasciata restaurarsi, ma temporariamente, la repubblica di Genova; occupate da Austria e l’antica sua provincia di Lombardia, e Venezia giá datale in compenso di quella stessa, or del Belgio; data l’isola d’Elba in sovranitá e quasi in ischerno a Napoleone. I trattati, gli eventi del 1815 mutarono poi tutto ciò in parte, ampliarono casa Savoia di quasi tutti i paesi oltre Alpi lasciati giá a Francia, e del magnifico acquisto di Genova; passarono l’ereditá futura di Parma e Piacenza al duca di Lucca, e quella di Lucca a Toscana giá ingrandita dell’Elba; restaurarono in Napoli Ferdinando IV, e confermarono ad Austria il regno lombardo-veneto. Ma giá questi fatti appartengono a un periodo di tempo, il quale appunto non fu piú di due preponderanze combattute, ma di una sola piú largamente, piú unitamente stabilita che mai; un periodo che incominciò dunque peggiore del precedente, ma che non sappiamo come né quando finirá. Ed ai tempi non adempiuti, non si può dar nome, né luogo forse, nelle storie generali.