Della storia d'Italia dalle origini fino ai nostri giorni/Libro settimo/11. Continua

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[p. 42 modifica]11. Continua. — Ripetiamolo pure, e sovente; toltine Machiavello e l’Ariosto, furono abbondanti, anzi che grandi, in questo secolo gli scrittori. Ma gli artisti, abbondantissimi e grandissimi insieme. Qui nell’arte è dove trionfa l’ingegno italiano; qui è innegabile, e conceduto da tutti, il nostro primato. Qui possiamo, anch’oggi, non uscir d’Italia, trovar tra noi tutto quanto è da studiare e imitare. E tutto l’ottimo poi il troviam raccolto nel Cinquecento, anzi in quella prima metà di esso di che qui [p. 43 modifica]trattiamo. E quindi non solamente non avremo luogo qui a dir tutti i notevoli, ma nemmeno a nominarli. Accenneremo cinque culminanti intorno a cui si rannoderanno gli altri: Leonardo, Michelangelo, Raffaello, Tiziano e Correggio. I tre primi, e (se è vero che la purità e l’eleganza, cioè quella che il Vasari chiama «virtú» del disegno, sia la somma dell’arte) i tre sommi, usciron tutti di quella terra e scuola privilegiata di Toscana ed intorno, che dicemmo culla dell’arti italiane. Nato Leonardo in Vinci nel 1452, attese in gioventú all’arti cavalleresche, a tutte quelle del disegno, a musica, a poesia, a matematica, a meccanica. È uno di quegli esempi che ingannano a disperdersi molti ingegni anche presenti, i quali non pensano quanto eccezionali sieno gli uomini enciclopedici, e massime quanto impossibili nelle colture progredite. Oltreché, Leonardo si fermò poi intorno a’ trentacinque anni nell’arti del disegno: e vi giunse al colmo suo (e forse dell’arte) nella Cena che fece a Milano per Ludovico il moro [dal 1494 al 1499], e cosí in quella etá dove tanti altri giá incominciano a stancarsi e scendere. E cosi egli fondò colà la scuola lombarda; in che si vide gran tempo alle fattezze la figliazione fiorentina. Morí l’anno 1519. Furono in quella scuola contemporanei, accerchiatori o seguaci di lui, Cesare da Sesto [-1524], il Luini [-1534?], Gaudenzio Ferrari [1484-1550], Bernardino Lanini [1578], Andrea Salai e parecchi altri minori. — Michelangelo Buonarroti [n. 1474] fu anch’egli «pittor, scultor, architettor, poeta», ma fin dall’adolescenza e nei giardini del magnifico Lorenzo attese all’arti e sopra tutte alla scoltura. Spaziò poscia in tutte e tre, vivendo e lavorando in Roma principalmente. Lasciolla una volta per ira (egli avea del Dante, e fu detto tale nell’arti) contra Giulio II, quell’altro iroso, quel Dante dei pontefici. E fuggito a Firenze, poco mancò che le due ire non guastassero il papa e la repubblica, non fossero uno di piú de’ turbamenti d’Italia. Un’altra volta venuti i due alla ribelle Bologna, e vedendo il papa il modello della propria statua apparecchiatogli da Michelangelo, e che questi gli avea posto nella mano sinistra un libro: — Che libro? — disse, — ponmi una spada, ché io non so lettere. — Poscia guardando la destra: [p. 44 modifica] — Dá ella benedizione o maledizione? — E Michelangelo: — Minaccia questo popolo se non è savio. — Ma il popolo non fu savio ed atterrò poi la statua. Meglio un pontefice benedicente, e ribenedetto; dureran serbate da’ popoli le statue sue. Una terza volta, sotto Clemente VII, ei lasciò Roma, come dicemmo, per servir la patria da ingegnere. I freschi da lui fatti in Vaticano serviron di studio all’ultima maniera di Raffaello. Fu geloso di questo, come vecchio di giovane da cui sia superato; e volendo rivaleggiare anche in pittura a olio, a che era poco pratico, s’aggiunse fra Sebastiano veneziano; e i due insieme fecero de’ gran bei lavori, ma men belli che quelli fatti da Raffaello. Piú vecchio d’assai sopravvissegli di molto; signoreggiò, quasi tiranneggiò nell’arti a Roma per gran tempo; e morto Antonio da Sangallo [1546], ebbe la fabbrica di San Pietro, dove, ognun sa, pose il Panteon a cupola. Mori nel 1564. I novant’anni di sua vita comprendono tutt’intiera l’etá aurea dell’arti. Quindi in sí lunga vita, ed in una scuola giá così antica come la fiorentina, ebbe molti e grandi compagni e seguaci: Luca Signorelli [1440-1521], fra Bartolommeo [1469-1517], il Peruzzi [1481-1536], il Ghirlandaio [1485-1560], Andrea del Sarto [1488-1530], il Rosso [-1541], il Pontormo [1493-1558], il Bronzino [1502-1570], il Vasari [1512-1574], e molti altri che continuarono la scuola fiorentina; e il Francia [1450-1535], che si conta capo della bolognese, figlia cosí essa pure della fiorentina. — All’incontro, passò, quasi celestiale apparizione in bel mezzo alla lunga vita di Michelangelo, Raffaello d’Urbino [1483-1520]. Non enciclopedico, non letterato, raro cultor delle stesse due altre arti sorelle, elegantissimo architetto tuttavia ne’ pochi edifizi da lui fatti, pittor sopra ogni cosa, disegnator come nessuno che si conosca, per l’invenzione, l’espressione, la grazia, la divinità delle figure sue, delle donne principalmente, della beata Vergine sopra tutte. Incominciò in Urbino sotto il proprio padre, pittor non volgare; imparò a Perugia sotto a Pier Perugino [1446-1524], illustre pittore per sé, piú illustre per lo scolaro; innalzossi a Firenze; e chiamato a Roma, superò gli altri, superò Michelangelo, superò se stesso, tre o piú volte, od anzi sempre [p. 45 modifica]progrediendo, secondo che lavorava nelle logge e nelle stanze del Vaticano, alla Farnesina, nelle quasi innumerevoli Sante famiglie, e ne’ ritratti, e nello Spasimo, e nella Trasfigurazione, e ne’ disegni che dava a ciascuno, pittori, scultori e incisori, quanti gliene chiedevano, con una liberalitá, che era facilitá ed amore. Amava gli artisti, l’arte, ogni bello che vedesse e faceva suo. Poche anime han dovuto gioir quaggiú come quella. Fece felici quanti gli vissero intorno, e fu fatto felice da tutti. Non un’ira, non una gelosia, un pettegolezzo per parte sua, in tutta sua vita. Poche difficoltá incontrò. Non cercava, era cercato dalla fortuna, da papi, principi, grandi, letterati, uomini e donne. Visse presto, visse poco; morí di trentasette anni [1520]. Gli furon fatte le esequie da Leon X e tutta Roma, colla Trasfigurazione a capo del feretro. E non compagni, ma scolari e creati di lui furono e si professarono i seguenti, tutta quella che è detta scuola «romana»: Giulio Romano [1492-1546] principale fra tutti; Penni o il Fattorino [1488-1528 circa], Giovanni da Udine [1494-1564], Polidoro da Caravaggio [-1546], Perin del Vaga [-1547], Daniele da Volterra [1509-1566], Taddeo Zuccari [-1566] e parecchi altri; i piú de’ quali, dispersi dopo il sacco del 1527, diffusero quello stile e quella scuola non solamente in Italia, ma in Ispagna e Francia: l’Europa colta di quell’etá. Fu qualche compenso ai cattivi nomi fattici da altri. — La scuola veneziana è forse la sola che procedendo anticamente e direttamente da’ greci non abbia avuta origine toscana. Ma i progressi di lei furono molto piú lenti; e gli splendori non v’incominciarono se non da Giovanni Bellini [1426-1516] e Andrea Mantegna [1430-1506]; a cui tenner dietro, nati del medesimo anno, Giorgione [1477-1511] e Tiziano [1477-1576]. Visse questi cosí, a un tempo, e piú che Michelangelo, novantanove anni. Portò sua scuola al sommo subitamente. Il colore, come ognun sa, n’è pregio principale, e grande; ondeché qui forse sarebbe il luogo di gridare contro all’imitazione dagli stranieri, da que’ fiamminghi in particolare che ritrassero senza dubbio molto bene le loro splendide carnagioni settentrionali, ma perciò appunto non bene le meridionali, italiane, spagnuole e greche, [p. 46 modifica]piú belle e sole vere incarnate e piú pittoriche; ondeché, per uscir fuori d’Italia, sarebbe meglio andar a Spagna che non a Fiandra od Inghilterra. Tiziano ebbe una gran brutta amicizia, quella dell’Aretino. Salvo in ciò, egli pure fu gentile, dolce e felice uomo in patria ed alle corti di Carlo V e Francesco I; e fece pitture innumerevoli, e ne fu fatto ricco e molto onorato. Del resto, non primeggiò forse in Venezia, come i tre detti a Milano, Firenze e Roma. Furono poco minori di lui, oltre il Giorgione, anche il Tintoretto [1512-1594], e massime Paolo Veronese [1528?-1588]: e seguono piú o men lontani, il Bassano [1510-1592], Palma il vecchio [1518-1574], ed alcuni altri. — Finalmente, Antonio Allegri, detto il Correggio dal nome del suo nativo paese, visse poco [1494-1534], appena tre anni piú che Raffaello. E la vita di lui è quasi ignorata. Par che si trattenesse, e certo lavorò sempre nelle cittá vicine a sua culla, Parma, Modena, Bologna. Dove, non essendo per anche una scuola fatta e determinata, egli, studiando da sé e su pochi e vari modelli, fecesi uno stile tutto proprio, e giá poco men che eclettico; come fu quello creato poi ne’ medesimi luoghi un cinquant’anni appresso da’ Caracci. Disegnator poco esatto, ma arditissimo e quasi scientifico, abbondò negli scorci, nel sotto in su, piú e peggio che Michelangelo stesso, giá soverchio in tali ricercatezze. Riman memoria del suo studiar solitario nella tradizione, che vedute le pitture di Raffaello prorompesse in quella esclamazione: — Anch’io son pittore; — la quale fu poi ancor essa consolazione ed inganno a tanti che se la ripeterono. Ma negano alcuni ch’egli uscisse mai da’ suoi contorni. E lá intorno pure fiori il Parmigianino [1503-1540], non dissimile. E gli scolari ed imitatori de’ due si confusero in breve nella vicina scuola di Bologna. — Fiorirono allora, benché non al paro della pittura, anche le due arti sorelle. Nell’architettura (civile o militare) primeggiarono, oltre Michelangelo e Raffaello ed altri detti, il Cronaca [-1509], Bramante [-1514], Giuliano e i due Antoni da San Gallo [-1517-1546], Sanmicheli [1484-1559], De’ Marchi [1490-1574], Tartaglia [1500-1554], Vignola [1507-1573], Paciotto [1521-1591], fra Giocondo [-1625?], e sopra [p. 47 modifica] tutti Sansovino [1570] e Palladio [1508-1580]. — Nella scoltura, oltre Michelangelo di nuovo e parecchi altri detti, Baccio Bandinelli [1490-1559], il Tribolo [1500-1550], e Benvenuto Cellini [1500-1570], principe degli orefici e gioiellieri di qualunque tempo; e Giovanni dalle Corniole, cosí detto per essere stato primo o principale a rinnovar l’arte dell’incider gemme in cammei ed in cavo. Finalmente, in questo tempo pure si svolse l’incisione in rame e in legno che dicemmo incominciata giá nell’etá precedente; e fiorironvi, oltre il Mantegna, il Francia, il Parmigianino, e Tiziano, Marcantonio Raimondi [1488-1546 o 1550], che incise sovente su disegni di Raffaello, Agostino Veneziano [intorno al 1520], ed altri. — Né lascerem l’arti senza accennar della musica, che ella pure sorse e crebbe dapprima esclusivamente e sempre principalmente italiana. Ma questa rimase per allora lontana dal suo sommo, incominciò allora solamente i suoi progressi. Noi ne vedemmo uno grande fatto nel secolo decimoprimo da Guido d’Arezzo; ed altri ne avremmo potuti notare ne’ secoli decimoterzo e decimoquarto. Nel decimoterzo, i nomi stessi delle composizioni poetiche, sonetti, ballate, canzoni, indicano ch’elle furon fatte per essere accompagnate dalla musica. Nel decimoquarto, abbiamo da Dante e Boccaccio tante menzioni di musica, che, in mancanza di monumenti, dobbiamo argomentare molto coltivata allora quest’arte; oltreché, resta memoria d’un Francesco Landino detto il «cieco», che fu incoronato a Venezia nel 1341, quasi contemporaneamente col Petrarca. Ma d’allora in poi lungo il secolo decimoquinto sorge un fatto curioso, e fors’anco utile a notare in quell’arte: che la musica italiana (probabilmente piana, ricca di melodie fin d’allora, ché tale è il genio nostro nazionale) fu oppressa da quella straniera e piú scientifica de’ fiamminghi o tedeschi. In Roma, in Napoli, nelle chiese, nelle corti tiranneggiaron questi; non si trovan guari mentovati allora altri maestri che questi. Franchino Gaforio [1451-1520?] pare essere stato il primo a restaurar la musica italiana, e dicesi prendesse dagli scrittori greci ed altri antichi gran parte di sua scienza, ma sembra da ciò stesso che fosse scienza o poco piú. [p. 48 modifica] all’incontro, dicesi sia stato artista vero ed ispirato il Palestrina [1529-1594]. Dico che si dice, perciocché né io né credo i piú degli italiani udimmo le melodie di lui; e noi abbiamo a invidiar agli stranieri l’uso di far sentire le musiche antiche. E dal Palestrina in poi rimase il primato dell’arte agl’italiani. Né è meraviglia; il sommo di quest’arte sta certamente nella melodia e nell’espressione, o piuttosto nella combinazione delle due, nel trovar melodie espressive; e il modello, il germe delle due non si trova guari in nessuna delle lingue settentrionali, né nel modo di parlarle né nelle inflessioni con cui si parlano; le quali sono od antimusicali del tutto, o molto men musicali che le italiane, e massime che le italiane meridionali. Ad ogni modo, lasciando i progressi tecnici fatti intorno alla metá del secolo decimosesto, noterem solamente, che di quel tempo sono i primi oratorii, inventati, dicesi, per quella congregazione di san Filippo Neri [1515-1596] da cui presero il nome. E di quel tempo pare la prima opera in musica, l’Orbecche di Cinzio Giraldi, stampata in Ferrara 1541. Insomma, tutte le invenzioni, quasi tutti i grandi progressi e i grandi stili e il sommo di quest’arte celestiale, sono italiani. Picciol vanto, ripetiamolo, questo primato nostro quando riman solo; ma bello e caratteristico esso pure, quando si trova nel secolo decimosesto congiunto con tutti gli altri di tutte le arti e tutte le lettere; quando concorre a dimostrar la fratellanza di tutte le colture, gli aiuti, le spinte ch’elle soglion ricevere l’une dall’altre a vicenda.