Della ragione di stato (Settala)/Libro III/Cap. XIII.
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Capitolo XIII
Della ragion di stato degli ottimati per difendere la forma
della loro republica contro alcuno, che si volesse far re.
Dove molti sono potenti non è dubbio, che non è gran cosa, che ad alcun di loro, per ben che siano di quelli appresso dei quali risiede la suprema autoritá e ’l dominare, venga pensiero di tirare a sé tutta l’autoritá, e di farsi assoluto signore. E se bene si supponesse virtú nei dominanti ottimati nella prima elezione, spesso però nei figliuoli tal bontá degenera; e l’ambizione, che nelle dignitá sempre suol crescere, incita ancora a cose contro l’onesto: perciò è ragionevole, che ciascuno vadi osservando gli andamenti e le pratiche de’ colleglli, acciò alcuno di loro non si facci troppo potente e che non s’incammini all’usurpazione del regno; come di Cesare dice Svetonio: «Uno in quel tempo governava ogni cosa nella republica. e tutto dipendeva dal suo arbitrio». Nel che Bruto con ragione riprese Cicerone, che avendo inalzato con eccessivi onori il giovanetto Ottavio, l’avesse armato contro la republica.
Per preservare adunque da simil male tal forma di republica, prima si avertirá a non commettere per troppo longo tempo un magistrato, e particolarmente militare e supremo, ad un solo. E perciò i romani la dittatura, che era supremo magistrato e che assolutamente comandava, non permisero che durasse piú di sei mesi: e di piú vi si aggiungeva il maestro de’ cavalieri, che potesse all’occasione impedire qualche tentativo, che si fosse intrapreso contro la patria. Ai consoli il supremo imperio negli eserciti e nelle spedizioni di guerra era d’un anno, dopo il quale se le mandava il console successore; se si prolongava per qualche importante necessitá, era fatto ciò con autoritá e licenza del senato; e per poco tempo l’essersi prolongato a Giulio Cesare il magistrato nella guerra di Francia, non distrusse egli la forma della republica romana mutandola di republica o democrazia in monarchia? Della qual cosa siffattamente esclama contro Cesare Marco Tullio in una certa epistola ad Attico con queste parole: «Che cosa si può fare piú superbamente? Hai tenuta la provincia per dieci anni non concessiti dal Senato, ma da te stesso per forza, e per mezzo delle fazioni usurpati; è giá passato il tempo, non della legge concessati, ma della tua ambizione: ma fa che sia dalla legge; ormai si determina, che ti sia dato il successore: l’impedisci dicendo, che vorresti che s’avesse riguardo alla persona tua e all’onore. Abbi tu riguardo al nostro. Dunque avrai un nostro esercito per piú longo tempo di quello, che ha comandato il senato?». La qual naturale superbia e desiderio della nobiltá di restar comandando nelli imperi, Caio Mario detestò, appresso Patercolo, con agri parole.
Per questo Aristotele nella Politica molto ben ci avvisò esser molto ben da fuggire in questa forma di republica l’eleggere due volte uno al medesimo magistrato, se sará dei maggiori: si accioché tutti possano partecipare degli onori e delle dignitá; si ancora acciò alcuno troppo potente, divenendo vago di quella grandezza, non procuri o con forza o con ingegno di piú non lasciarla, ma facendosene patrone mutare Io stato aristocratico in monarchico. Marco Rutilio Censorino, fatto dal popolo romano la seconda volta censore, congregatolo nel principio, acremente lo riprese, che due volte gli avessero imposto quel carico, e data quella potestá, la quale a’ suoi maggiori, perché le pareva troppo grande, era parso bene d’abbreviarla. Per il che ii popolo, cosí dal medesimo persuaso, dispose per legge, che per l’avvenire nessuno potesse due volte avere tal magistrato. A questo fine fu fatta dal senato legge, che nel creare i tribuni dei soldati, non fosse nominato alcuno per tale offício, il quale quell’anno fosse stato tribuno della plebe, né che alcuno si potesse rifare tribuno della plebe per l’anno seguente.
Non si deve permettere che un cittadino, per ben che sia nobile ricco e potente, si congiunga in affinitá e parentele con matrimonio con prencipe forastiero: e particolarmente congiungendosi in matrimonio con figliuole di sangue regio, perché, essendo grandissima l’ambizione nelle donne, figliuole allevate alla grande, e che hanno padre e madre di condizione regia e che soli comandino, mai potranno sopportare stato privato; e sempre stimolará il marito ad uscire dallo stato privato, e a tutte le ore, e maggiormente quando saranno nei piaceri maritali, lo spingerá a procurarsi il dominio assoluto.
Ma né anco si deve concedere, che cittadino alcuno, sia egli o de’ governanti o de’ sudditi, mariti figliuola in prencipe forastiero, come nel quinto della Politica ci insegnò Aristotele: perché o il padre con il mezzo del genero ingrandito tenterá qualche novitá, o gran ricchezze per la dote usciranno dalla republica, o quel prencipe aggiutato dalla potenza e ricchezza del suocero, che per piú potere facilmente tradirebbe la patria, si acquisterá per lui quel dominio. Bellissimo esempio di ciò ci lasciò Aristotele, al capo settimo, dei locresi, la republica dei quali si perdette e andò sotto la tirannia di Dionigi il giovine signore di Sicilia, per aver avuto per moglie una signora locrese, molto nobile e ricchissima; per il qual parentado e per gli aggiuti indi riportati, assaltata quella republica, se la fece soggetta.
Fu parere di Catone e d’altri prudentissimi politici, per fuggire i pericoli che potessero distruggere una republica degli ottimati, o de’ pochi, esser utile il fomentar le discordie e le fazioni che fossero nate tra due grandi e potenti; e se questo parere non si intende sanamente, veggo che sarebbe molto male, e che porterebbe la rovina alla republica. Livio notò che le discordie degli ordini sono il vero veleno delle republiche; in maniera tale, che Aristotele nel quinto della Politica al capo sesto dell’oligarchia, o governo de’ pochi, o nobili o ricchi, disse: se tal governo sará unito, e saravvi concordia tra loro, non rovinerassi da sé facilmente, e per cause interne: che sará adunque nel governo degli ottimati? Onde nella republica romana per questa causa Fabio e Tiberio Gracco reemessero gli odii e si conciliarono in amicizia per il beneficio publico. Anzi se per caso si scorgerá esser nate fazioni per inimicizie tra i primi della republica o cittá, si deve procurare di levarle, ma vi bisogna usare grand’arte e prudenza politica. Conciosia che se a ciò non si provvede levando questa emulazione e concorrenza, scoppia finalmente e fa che l’uno di loro vincendo, per la vittoria potente e incamminato al dominare, occupa l’imperio e solo procura di signoreggiare: in tal caso si riduce la republica che, come dice Tacito, acciò vi sia pace sia bene che tutta la potestá si sia d’un solo. Sará forsi vera la sentenza di Catone, non nella cittá metropoli, né fra quelli che fanno il corpo de’ dominanti, ma nelle cittá suddite, dove sia popolo bellicoso e uomini principali di grande spirito: che se colá nasceranno tra’ principali inimicizie, se bene non si devono fomentare, acciò in due parti e fazioni diviso il popolo non metta in rovina tutta la cittá; non sará però espediente, né sará in tutto buona ragion di stato il conciliargli in maniera, che possino macchinare ribellione, ma doveranno sequestrarsi in casa, e con sicurtá procurare che non si offendano: lasciandovi qualche sospizione sempre, che con la diffidanza non li lascierá unire a danni della republica; anzi, e l’una e l’altra sempre sospettosa anderá osservando gli andamenti suoi, e per mostrarsi fedeli alla republica dominante, sempre nelle cose sospettose avviseranno.
A frenare ancora la soverchia potenza d’alcuno, e impedire i progressi che potrebbe fare in danno della republica, la segreta difesa che usarono gli edui, descritta da Cesare ne’ suoi comentari, mi pare degna di essere qui aggiunta: che due di una famiglia, essendo vivo e l’un e l’altro, non potessero esser non solo in magistrati nel medesimo tempo, ma né anco in senato; essendo che questo ultimo nel quinto della Politica è stimato da Aristotele cosa di non poco pericolo. E questo fu la causa che Pompeo Colonna impedí che non fosse creato in pontefice Giuliano de’ Medici, come scrive il Giovio: non parendo ragionevole, ma cosa molto ambiziosa, che il pontificalo continuasse in una casa, e in due fratelli, e per cosí longo tempo.