Della ragione di stato (Settala)/Libro III/Cap. XIV.
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Capitolo XIV
Rimedi contro la soverchia potenza d’alcuno,
che nella republica degli ottimati procurasse il dominio per sé.
Abbiamo fin qui insegnati i rimedi preservativi nella republica aristocratica e oligarchica: acciò facendosi alcuno troppo potente, o per virtú o per favori o per ricchezze, non procurasse di distruggere la republica e farsi assoluto signore. Ora resta da insegnar la cura, cioè il modo di impedire, che colui che sopra gli altri si è fatto potente o per azioni virtuose o per altro modo, non si facci patrone mutando la forma della republica.
Se adunque alcuno sará cresciuto a troppo gran potenza, con qualche bella stratagema bisognerá pian piano abbassarlo; e con mandarlo a qualche guerra, o per la republica mossa o in aggiuto d’amici, dove sotto specie d’onore abbi da spender molto e scorrere pericolo nella riputazione. Ma se le cose le succedessero bene, sará di mestieri rivocarlo a casa: o mostrando di ciò fare per sollevarlo da tante molestie, che seco apporta la guerra; o per dargli qualche carico onorato nella cittá, ma però sotto gli occhi del senato, che pure anderá osservando tutti i suoi portamenti: come fece Tiberio con Germanico, che per levarlo dal corso delle vittorie l’invitò al consolato, che pure era da essercitarsi sotto i suoi occhi; e per questo dice Tacito: itaque non cunctatus est ultra Germanícus, quanquam fingi ea, seque per invidiamparto iam decori abstrahi intelligeret.
Ma perché qualche volta non si possono impedire gl’impeti della fortuna, che bene spesso a viva forza porta uno ai supremi gradi d’onori e di grandezza; o perché negligentemente osservando le azioni di alcuno, si lascia pigliar possesso nella grandezza: vi bisognerá gran prudenza a provvedervi: né all’improviso è bene tagliarle le ali, ma a poco a poco, e con qualche industria bisogna fiaccargli le forze: acciocché, se in un subito si tentasse d’abbassarlo, se le desse occasione di tentar disperatamente tutte l’imprese per sostentarsi e d’appigliarsi a qualsivoglia partito, per pericolosissimo ch’egli fosse e a se stesso e alla republica. E questo è quello di che avvisò Pericle la sua republica, come scrisse Valerio Massimo nel libro settimo al capo secondo: che si raffrenassero i giovani della prima nobiltá e d’ingegno impetuoso. Perché con il troppo favore dal soverchio convincimento pasciuti non possono esser impediti, che non ottenghino tutta la potenza che vogliono: per esser ancora dall’altra parte cosa da pazzo, e inutile il volere biasimar le forze, che da loro sono state fomentate.
Pertanto in tal caso è di mestieri ritrovar modi, con li quali da se stesso s’abbassi; e con ogni industria si deve indurre a cose, che gli accendino il fuoco dell’invidia: e, come dice Livio Mantio, perché col mezzo della plebe non assaltiamo colui? essendo piú sicuro con il mezzo di quello assalirlo, acciò oppresso dalle forze caschi. Cosí fece Mecenate, come scrive Paterculo, quando con tanta quiete e dissimulazione, conosciuti i precipitosi consegli del giovane Lepido, con tanta prestezza e destrezza, e senza alcuna perturbazione di cose o d’uomini, estinse l’incendio della nuova guerra civile, che era per risorgere. Cosí fece Alessandro con Filota, e Tiberio con i Liboni, che si preparavano la strada all’imperio: avendo il primo invitato a cena, e burlato familiarmente colui, che pure prima aveva condannato, per non eccitar rumore nell’esercito e negli amici; e il secondo, come dice Tacito, ornavit pretura, convinctibus adhibuit, non vultu alienatus, non verbis commotior. Cunctaque eius dieta factaque, cum prohibere posset, scire malebat.