Della ragione di stato (Settala)/Libro I/Prefazione
Questo testo è completo. |
◄ | Libro I | Libro I - Cap. I. | ► |
Prefazione
Molte volte fra me stesso son andato pensando la causa, perché, essendo che in bocca d’ogni uno è questo nome di ragion di stato, e che tal cosa sia fatta per ragion di stato, cosí pochi siano arrivati alla cognizione vera della natura di quella, e in qual cosa stia propriamente la sua forma. Anzi per lo piú ciò tralasciando, tutto il loro pensiere hanno posto in cavar precetti, e massime circa tal materia dal secretario fiorentino, e dalle azioni di Tiberio scritte da Cornelio Tacito; non avvertendo che quello formando il suo prencipe lo ammaestrò con precetti insegnati e tolti da Aristotele nel quinto della Politica, dove ci rappresenta le astuzie e accortezze de’ tiranni, cosí della prima come della seconda spezie, per conservare se stessi e il loro stato in quella forma, — e da Senofonte nel suo Tiranno, come a precetto per precetto ho dimostrato a’ miei uditori nell’esplicazione del detto quinto libro: e Tacito, descrivendo le azioni di Tiberio troppo accorto tiranno, ci pose avanti gli occhi con quali maniere e astuzie potesse aversi cosí lungamente, e con azioni tanto scelerate, conservato l’imperio; se bene posso certamente affermare, questo buono e fedel istorico quelle azioni simulazioni e astuzie di Tiberio averci al vivo e con le circostanze rappresentate per dipinger mostro tale, qual era, e dimostrar al mondo quelle azioni essere state da lui indirizzate ad isfogar la libidine, l’avarizia, e la crudeltá di tal uomo, il quale fin da fanciullo fango col sangue macerato fu detto: e non per ragion di stato. E se pure si averanno da ridurre sotto tal bandiera, niuno però potrá negare, chi vorrá considerare tutte le azioni sue nel corso di sua vita e del suo imperio, non essere stato tiranno: sì per il nascimento, non essendo della vera successione di Augusto; sì per il modo, co ’l quale arrivò alla grandezza dell’imperio, e per sceleratezze e tradimenti, e della madre (avendo con astuzie piú che tiranniche levata la vita a cui e per virtú e per vera ragione di successione doveva succedere nell’imperio), e per i propri, avendo nell’ingresso del suo signoreggiare fatto morire Agrippa postumo, vero erede per il sangue; sì finalmente per l’infame sua vita, piena d’ogni sorte di bruttezze, sceleraggini e azioni tiranniche. E sará chi le azioni di Tiberio si pigli per esempio, e per regole infallibili di ragion di stato! E pur troppo è vero, che a’ tempi nostri pare non esservi altra ragion di stato, che quella che si cava da Tacito e dalle cose da lui descritte: essendo però le regole e massime quindi tolte sole ricevute per vere regole di ragion di stato; non facendosi differenza dalla ragion di stato buona e conveniente alli buoni principati, alla rea, de’ cattivi propria; se non fosse, che per esser rari i buoni governi, e partecipando molti del tirannico, come deplora ancora a suo tempo Aristotele nella Politica, se ben pur viveva, e regnava in quel tempo Alessandro suo discepolo e benefattore: ne nasce, che la ragion di stato, la qual si pratica, si mostri iniqua e rea, essendo appoggiata a tali fondamenti, e a massime tolte da azioni tiranniche. E per questo rispetto forsi ancora è piaciuto a’ prencipi il nome di ragion di stato; acciocché sotto la coperta di voce onesta si potesse in qualche parte occultare la malvagitá della cosa. Non sará però mai vero, che non vi sia ragion di stato buona; ma forse perché per lo piú ella in qualche cosa contraviene alle leggi, comunemente ancora è tenuta per mala: conciosia che essendo per lo piú i governi indrizzati all’interesse di cui regge, e le leggi avendo per fine principalmente il bene de’ privati, non può se non malamente accordarsi con le leggi. Però chi si intirannisce d’uno stato, per fuggir quanto può questo nome di tiranno e mostrarsi buon prencipe, non pure mostra di sprezzar le leggi, ma le fa per apunto osservare, e le migliora se fa di mestieri. E per questo rispetto Hierone fu cosí caro a’ siracusani, e Augusto a’ romani, che ebbero a dire nella sua morte: Utinam aut non nascerctur, aut non moreretur; — e chi meglio nel suo governo in ciò si sa governare, meglio si stabilisce nel suo principato, e piú facilmente si assicura della volontá de’ sudditi. Ma perché finalmente il tiranno ha piú a cuore l’interesse proprio, che ’l commodo de’ sudditi, serva le leggi fin ad un certo termine, che a lui non tornino in pregiudizio: ma venendo il caso che l’osservanza delle leggi possa recargli danno, allora gettando per terra le leggi, tutto si lascia regger dalla ragione di stato. Ma, perché i casi che cadono sotto le leggi sono infiniti, e i capi della ragion di stato non son molti, il tiranno fa il fatto suo, e nondimeno alla moltitudine male accorta pare buono e giusto. Ma nelle rette repubbliche la ragion di stato con le leggi si conforma, e la prudenza politica con quella sempre cammina; e l’una e l’altra d’accordo fanno una perfetta armonia, rivolte insieme al giusto e all’onesto, mirando ugualmente alla felicitá di cui ubidisce, e di cui comanda. Ma perché nelle cose umane non si dá l’intieramente perfetto, se non per imaginazione e per desiderio; quel dominio dove non sia gran fatto apparente dissonanza tra le leggi e la ragion di stato, si dovrá sommamente lodare, e tener in pregio: e tanto piú quando la limitazione o trasgressione della legge sará per beneficio pubblico, ancor che l’interesse di cui governa vi avesse qualche parte. Tutte queste cose giá m’invitarono a trattar con qualche metodo tutta questa materia della ragion di stato, e in particolare con l’occasione che mi porgeva Aristotele nel quinto libro della Politica, l’anno passato spiegato da me a’ miei uditori nelle scuole canobiane; nel quale possiamo veramente dire, esser da quel grand’uomo proposte piú massime e precetti politici di ragion di stato, cosí buona come rea, nell’insegnarci le maniere e i modi, con li quali ciascuna delle specie de’ potentati e republiche, e buone e cattive, si sono conservate in quello stato e forma, che o per successione o per elezione hanno ricevuta, o con qualche sua industria, o bene o male, abbino acquistata, che non si possino cavare da qualsivoglia altro scrittore antico o moderno, istorico o politico. Che se alcuno dirá questa materia essere trattata da molti grand’uomini, e perciò esser fatica soverchia: potrò ben io rispondere, molti aver cavati precetti, e politici e di ragion di stato, da istorici, come da Tito Livio e da Cornelio Tacito e da altri, cosí antichi come moderni, ma senza metodo e ordine; né aver distinti i precetti politici da quelli della ragion di stato, né i buoni da’ cattivi; né aver adattati a ciascuna delle sei specie di republica i propri precetti e le sue massime: essendo chiaro, che quelle regole, che converranno alla conservazione degli ottimati, non converranno alla vera republica, né al monarca: né quelle che osserva il monarca o re, in conservar se stesso e il suo stato contro gli ottimati, saranno le medesime che usa per rispetto del popolo. E se son diverse queste regole nelle repubbliche buone, cosí tra di loro, come riguardando altrui; quanto piú differenti saranno le regole e le astuzie che usano le ree, da quelle che usano le buone; e se queste sono differenti tra loro, differentissime saranno tra di loro le male. E pure vediamo per lo piú da’ nostri politici, da questi che formano discorsi tali, ma molto piú da costoro, che cavano da Cornelio Tacito, e da ogni sua parola o sentenza o da azione, o di Tiberio o d’altrui, ivi descritte, massime politiche e precetti di ragion di stato, come universali: o se tolte da consigli o azioni, o di Tiberio o di qualchedun altro degli imperatori, regi, universalmente come buone e convenienti a tal maniera di dominare essere scelte e proposte, non considerato il fine, né se sia buona ne’ buoni re, che l’onesto e il bene devono avere per iscopo, né se Tiberio o altro fa quella azione, o si elegge quell’altra veramente per vera sua ragion di stato, cioè per conservarsi in quella maniera di dominio, che si ha eletta, se non per buona, almeno per utile e conforme al genere del dominare, che si ha proposto. Essendo, che si osservano molte azioni di Tiberio non indrizzate alla conservazione dello stato, ma solo ad isfogare la libidine, l’avarizia e la crudeltá: anzi bene spesso sono state in tutto contrarie ad ogni ragion di stato; come fu quella che, per poter meglio attendere a tante azioni di libidine, fece con Seiano, dando a costui tutta quasi l’autoritá imperiale, con la quale poco mancò che non perdesse l’imperio; e molte altre, che non è luogo questo né tempo di raccontarle.
Altri veggo potermi dire esser almeno soverchia questa mia fatica, per esservi trattati intieri della ragion di stato del Boteri e del Palazzo e del dottissimo mio signor Federico Bonaventura. Ma chi diligentemente leggerá il primo, vedrá solo il titolo esser della ragion di stato, e la prima pagina; tutto il resto non contenere se non pochissime cose a quella appartenenti. Anzi nella prefazione professa in quei dieci libri voler dimostrare le vere e reali maniere, che deve tenere un prencipe per divenir grande, e per governar felicemente i suoi popoli. Questa non è la ragion di stato né universale, né particolare di un prencipe: perché la prima contiene il modo di conservar qual si voglia specie di republica cosí buona come rea; anzi né anco è commune a tutte e tre le buone, restringendosi a quella di un sol principe, non al governo degli ottimati, né a quelli della republica. Ma se dice di trattar della ragion di stato di un prencipe, per certo potrò dire eccedere quello, che si ha proposto nel titolo: perché tra le vere maniere, che deve tener il prencipe per conservare felicemente i suoi stati e ben governare i suoi popoli, vi è la prudenza legislatrice, che poco ha che fare con la ragion di stato; anzi che in molte cose gli ripugna alcuna volta ancor nelle buone republiche, e spesso nelle ree. La prudenza ancora consultativa bellica tanto è lontana dalla ragion di stato, che per lo piú con quella non ha che fare: e tuttavia è molto necessaria al prencipe per conservar il suo stato. Chi vede in oltre tutto quel libro, e le cose che tratta ivi, facilmente conoscerá pochissime delle cose ivi trattate appartenere alla ragion di stato. Chi considera poi tutto quello, che scrive il signor Gio. Antonio Palazzo nel suo libro Del governo e della ragion di stato, e particolarmente nel terzo capo della prima parte, dove volendo diffinirla dice, governo, arte di governare, e ragion di stato essere l’istesso: conoscerá per le cose, che mostreremo appartenere alla ragion di stato, restringersi a meno che non contiene il governo, o arte di governare. Conciosia cosa che quello mira principalmente al ben publico, e la ragione di stato piú al bene di coloro, che sono capi della republica: quello abbraccia tutto il corpo della republica, e questa si restrigne se non a certi pochi casi particolari. Sí che la ragion di stato o sará membro della politica, o arte a quella subalternata; e perciò doverassi restringere tra confini assai piú angusti, che la politica. Il dottissimo libro poi del mio signor Federico Bonaventura, intitolato Della ragion di stato e prudenza politica, quasi tutto si consuma in ritrovare la vera definizione della ragion di stato, e in quali cose fatichi la prudenza politica, e quale delle sue specie sia quella, che serve alla ragion di stato: né viene a farci sapere, quali siano i mezzi, de’ quali ciascuna delle specie delle Republiche si serva, per conservarsi nello stato, nel quale si ritrova e desidera. Ci resta adunque e aperto il campo di poter da capo ripigliare questa materia, e con qualche ordine e metodo insegnarla. Né sia chi dica, questa essere materia da essere trattata, o da prencipi, o da consegliere o secretano di prencipe, e non da medico o filosofo: perché potrò rispondere, Platone e Aristotele, i quali piú di tutti si sono in questo affaticati, e non solamente posti i fondamenti a quest’arte, ma perfettamente fabricatala, essere stati filosofi; e che io in questa mia etá di settantatré anni, avendo osservate tante cose e azioni de’ prencipi e republiche, con non poca curiositá, e avendo letto tanti storici di tante nazioni e linguaggi, e cavatone molti universali da’ particolari, e molti particolari dagli universali, e tanti scrittori politici, tanto di quelli che commentano i libri politici d’Aristotele, come di quelli che scrivono di politica, formando o prencipe buono, o perfetta republica, o rappresentando il tiranno e sue astuzie e artifizi per conservar sé e il loro stato, o facendo discorsi politici, e cavando regole, precetti, o massime di ragion di stato dagli istorici statisti: poteva ancora in questa materia politica, e saper qualche cosa, e insegnarla; e tanto piú essendo piú di vent’anni, che in questa mia patria, nella famosa scuola Canobiana, io leggo la filosofia attiva, compresa da Aristotele ne’ dieci libri De’ costumi a Nicomaco suo figliuolo, e negli otto libri Politici. E se non è stato giudicato male, che io e leggessi e scrivessi e mandassi alle stampe i libri De ra~ tione instituendae et gubernandae familiae: perché non mi sará lecito scrivere materia, che spesso leggo a’ miei uditori, e ogni dí mi passa per la mente e per le mani? Né l’essere io medico impedisce il poter esercitare l’intelletto in altre materie: poiché veggo essere stati accetti al mondo e agli uomini dotti non solo le mie opere medicinali, ma ancora i commentari sopra il libro d’Ippocrate De aëribus, oquis et locis e sopra le quattordeci sezioni de’ Problemi d’Aristotele giá stampati, (che ora ho finiti sopra tutti, e in breve si pubblicheranno), e Dei nei, che pure non hanno a fare con la medicina.
Altri finalmente mi opporranno che, se universalmente tutte le ragioni di stato cosí buone come ree vorrò insegnare, mi sará necessario mostrar i mezzi, con li quali tutte tre le specie di republiche caminano per conservar sé e le forme del suo governo: che altro non sarebbe se non insegnar al tiranno i modi d’adempir i suoi malvagi pensieri, o a’ pochi potenti le vie di tener bassi e opprimer gli altri cittadini. Ma non si accorgono, che insieme riprenderanno Aristotele, che nel quinto della Politica piú si stende in insegnar le astuzie e modi secreti, che usano i tiranni per conservare il loro modo di dominare, che in qual si voglia altro. Ma ciò fece egli, non per insegnare cattivi precetti, ma piú tosto acciocché i popoli conoscessero quelle machine, che a rovina loro erano fabricate, per poterle sfuggire: come fanno i medici, che scrivendo de’ veneni indrizzano i loro pensieri all’utilitá publica: acciocché, conosciuta la natura loro, gli uomini potessero saper i rimedi, e per preservarsi e per curarsi.