Dell'uomo di lettere difeso ed emendato/Parte seconda/8

Parte seconda - 8. Inclinazione del genio , e mal'uso dell'ingegno nel dir male d'altrui.

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Parte seconda - 8. Inclinazione del genio , e mal'uso dell'ingegno nel dir male d'altrui.
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MALDICENZA

8.

Inclinazione del genio, e mal’uso dell’ingegno
nel dir male d’altrui.

Chi già mai crederebbe, che il dir male d’altrui fosse cosa sì dolce, che chi una volta l’assaggia ne resta sempre con voglia? e come i Lioni, che s’hanno leccato una vece il sangue su l’ugne, ne sono poi sempre bramosi parimenti a chi gusta i primi sapori del dir male ne resta d’ordinario sì ingorda la voglia, che v’ha di quelli, che si contentano d’esser senza lingua più tosto che senza motti, e lasciano più facilmente di vivere che di mortificare. La vecchiaja (quando vi giungono), ancorchè tolga loro molte volte il senno dal capo, non toglie però mai le punture dalla lingua aguzza; a guisa de’ vecchi spinai, a’ quali il freddo verno fa cadere le foglie ma non le spine, l’ornamento ma non l’asprezza.

Questi, per lo più acuti d’ingegno ma solo per pungere, mai non dicono meglio che quando dicono peggio, mai non isplendono più che quando più abbruciano. Tutte le pruove de’ loro ingegni sono motti e argutezze pungenti: e per riuscir più mordaci, faticano coll’ingegno più che quel famoso Oratore per esprimere e scolpire dispetto della scilinguata sua lingua la lettera R, lettera mordace e canina.

Udirli, come un Menippo, un Zoilo, un Momo, motteggiare d’altrui, (sì ingegnosamente lo fanno!) è udire una musica; ma una musica quale fu quella, che Pitagora osservò, fatta a battuta di fiere percosse, e a colpi [p. 49 modifica]di grossi martelli. La loro penna, più d’Avoltojo che di Cigno, simile a quella del famoso Demostene1, ha da un capo l’inchiostro, dall’altro il veleno: anzi veleno è l’inchiostro medesimo, che attassica i nomi che scrive onde, come chi muore di veleno, lividi e neri nelle loro carte compajono. Le vivezze dell’ingegno, che in altrui sogliono esser lampi innocenti di luce non di fuoco, per diletto non per offesa, in costoro son fulmini, che portano su l’ali le fiamme, e su la punta la morte.

Hanno trasfuso in capo il genio di Lucilio, qui primus condidit stili nasum2. Hanno in bocca la lingua propria de gli antichi Epigrammatisti, cioè (come la definì Marziale3) malam linguam; nè quantunque dolce e copiosa abbiano la favella, può già mai dirsi, che ad essi; come al soavissimo Platone, le Pecchie abbiano portato in bocca il mele, ma in questa vece o gli Scarpioni l’uova, o i Ragni il veleno. In fine, usano con la mano più tosto ferri da Notomista che penne da Scrittore, e quanto più sottilmente tagliano, tanto più valenti si mostrano, facendo piaghe ne’ vivi, e squarci ne’ morti.

Costoro, così indegni di vivere fra gli uomini, come tengono della fiera (ciò che di Cicerone fu detto), per guadagnare l’applauso d’un motto, non curano di perdere la grazia d’un’amico.

                              Dummodo risum
          Excutiat sibi, non hic cuiquam parcet amico4.

Con che ben possono acconciamente chiamarsi col Comico Vulturii, già che, Hostesne an Cives comedant, parvipendunt. Per esprimere un lor pensiero, non curano che se ne tormenti quell’innocente, sopra cui cade. Solo hanno l’occhio a far bello il colpo; e quando ben sia come quello dell’Aquila che lasciò cadere su la testa al calvo Poeta la Testuggine per trarne la scaglia, poco ne curano. Così dall’altrui pena cavano gusto per se, e dall’altrui ignominia onore; imitando Nerone, che diede il fuoco a Roma, per cantare su la torre di Mecenate al [p. 50 modifica]suon della sua cetera, nel vero scempio della sua patria, il finto incendio di Troja.

Ahi troppo barbaramente vogliosi di comparire a costo altrui ingegnosi e acuti! Provare la tempera della scimitarra e la forza del braccio nel cadavero de’ condannati, è crudele usanza de’ Giapponesi. Quanto peggio è, sotto finta di giuchevole scherma, mettere in petto a chi che si voglia una punta non meno mortale alla reputazione di chi la riceve, di quello che alla vita lo sieno quelle delle spade, che, come disse Vegezio5, duas uncias adacto mortales sunt. Pur dovreste sapere, che i Satiri, Padri e maestri delle Satire, sono più brutti per essere mezzo bestie, che belli per essere mezzo Dei; e ne’ detti vostri mordaci non tanto piace quel che v’è d’ingegnoso, che più non dispiaccia quel che v’è di maligno.

Sono cotesti gli altissimi usi, cotesti i divini impieghi, per cui vi fu dato l’ingegno? farlo, di Re ch’egli è, Tiranno; e di conservatore della vita civile, omicida e carnefice? Appropriate a voi stesso ciò che contra il crudelissimo Perillo scrisse un’Antico, giustamente dolendosi, perchè colui l’innocente arte di formare col bronzo statue di Dei e d’Eroi avesse rivolta alla fabrica d’un Toro esecutore o strumento delle fiere sentenze di Falari6: In hoc a simulacris Deorum hominumque devocaverat humanissimam artem? Ideo tot conditores ejus elaboraverant, ut ex ea tormenta fierent? Itaque una de causa servantur opera ejus, ut quisquis illa videat, oderit manus.

L’ordinaria pena di costoro è esser’amati da niuno, fuggiti da molti, odiati da tutti. Riportare l’infame titolo d’uomo satirico, maldicente, è nasuto; a cui possa scriversi in fronte quell’antico distico, tratto da un greco epigramma:

          Si meus ad Solem statuatur nasus hianti
               Ore, bene ostendet dentibus hora quota est.

Diogene, il Can maggiore de’ Filosofi Cinici, avea il suo palagio, anzi il suo nido, in una botte. Questo era il Cielo, ch’egli girava; Intelligenza appunto degna di [p. 51 modifica]tale sfera: questo l’antro, onde dava gli Oracoli, che aveano più odore di vino che di verità: questa la catedra, dove insegnando pretendeva di correggere gli altrui scostumati costumi. Qual che si fosse la dottrina ch’egli insegnava (che però era tale, che Platone poteva chiamarlo alterum Socratem, sed insanum7); in ogni modo, perchè in quella sfasciata e grommosa botte egli mescolava il vino d’una sincera Filosofia coll’aceto mordace d’una continova maldicenza, avea non iscolari ma schernitori, e tutta Atene e Corinto lo mirava come un Cane e lo fuggiva come un’arrabbiato.

E certo, chi vuol careggiare un’Istrice spinosa, che non vi tocca mai sì cautamente che non vi punga? Chi vuol farsi compagno d’uno, a cui, come allo Scarpione, semper cauda in ictu est8? Chi vuol per amico un Lione, che, quando ben non usi nè unghie nè denti, pur’è d’una lingua sì aspra, che ancor quando vi lecca vi cava sangue? Meglio è onorarli, per non averli nemici; facendo loro sacrificj, come i Romani alla Dea Febbre, perchè vi favoriscano di starvi da lungi, ed abbiano questa sola memoria di voi, di non raccordarsi in verun tempo di voi.

Ma poca pena de’ Maldicenti sarebbe l’essere solamente fuggiti, se ancora non fossero perseguitati. Che se bene tal volta sono avveduti nell’interesse della lor vita quanto lor basta per intendere, che non deono provocarsi quelli che possono rispondere alla penna colla spada e alle parole co’ fatti, ma che ne’ fatti loro si dee esser mutolo se non cieco, prendendo di ciò esempio da certe Oche di Settentrione, che passando il monte Tauro pigliano in bocca un sasso, per non gracchiare e svegliare l’Aquile che colà hanno i nidi; in ogni modo non riesce loro quasi mai l’esser sì avveduti, che non facciano qualche volta, senza riflessione, ciò che di continuo fanno per abito o per natura: con che o si fabricano, come i vermini della seta, con la bocca una prigione, o stimolano chi può farlo, a schiacciare lo Scarpione su la piaga ch’egli fece; [p. 52 modifica]raccordando col loro esempio la verità di ciò che Pollione disse d’Augusto, che non si dee scribere in eum, qui potest proscribere9.

Sempre non riesce di trovare chi doni, perchè si taccia di lui; nè chi (seguendo il consiglio d’Alonso Re d’Aragona) butti al Cane medicatis frugibus offam, perchè non abbai, a almeno non morda. Ventura singolare era questa di quell’Avvocato di Marziale10:

          Quod clamas semper, quod agentibus obstrepis, Heli,
               Non facis hoc gratis, accipis ut taceas.

Molte volte accipiunt, ut taceant; ma ricevono non so che, onde tacciono si, che non s’odono mai più favellare: che fu la mercede di quel celebre Zoilo11; che o fosse abbruciato vivo, o lapidato, o crocifisso, con uno di queste tre sorti di buona moneta ricevè l’intero pagamento delle maldicenze sparse contra il principe de’ Poeti.

Note

  1. Plut. in Dem.
  2. Plin. præfat. oper.
  3. Præfat. 1. 2. Epigr.
  4. Horat. l. 1. Sat. 4.
  5. Lib. 1. c. 12.
  6. Plin. lib. 14. c. 8.
  7. Ælian, lib. 14. var. Hist.
  8. Plin. lib. 1. c. 25.
  9. Macr. libr. 2. Sat. c. 4.
  10. Libr. 2. epigr. 36.
  11. Vitruv. præf. l. 7.