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50 | dell’uomo di lettere |
suon della sua cetera, nel vero scempio della sua patria, il finto incendio di Troja.
Ahi troppo barbaramente vogliosi di comparire a costo altrui ingegnosi e acuti! Provare la tempera della scimitarra e la forza del braccio nel cadavero de’ condannati, è crudele usanza de’ Giapponesi. Quanto peggio è, sotto finta di giuchevole scherma, mettere in petto a chi che si voglia una punta non meno mortale alla reputazione di chi la riceve, di quello che alla vita lo sieno quelle delle spade, che, come disse Vegezio1, duas uncias adacto mortales sunt. Pur dovreste sapere, che i Satiri, Padri e maestri delle Satire, sono più brutti per essere mezzo bestie, che belli per essere mezzo Dei; e ne’ detti vostri mordaci non tanto piace quel che v’è d’ingegnoso, che più non dispiaccia quel che v’è di maligno.
Sono cotesti gli altissimi usi, cotesti i divini impieghi, per cui vi fu dato l’ingegno? farlo, di Re ch’egli è, Tiranno; e di conservatore della vita civile, omicida e carnefice? Appropriate a voi stesso ciò che contra il crudelissimo Perillo scrisse un’Antico, giustamente dolendosi, perchè colui l’innocente arte di formare col bronzo statue di Dei e d’Eroi avesse rivolta alla fabrica d’un Toro esecutore o strumento delle fiere sentenze di Falari2: In hoc a simulacris Deorum hominumque devocaverat humanissimam artem? Ideo tot conditores ejus elaboraverant, ut ex ea tormenta fierent? Itaque una de causa servantur opera ejus, ut quisquis illa videat, oderit manus.
L’ordinaria pena di costoro è esser’amati da niuno, fuggiti da molti, odiati da tutti. Riportare l’infame titolo d’uomo satirico, maldicente, è nasuto; a cui possa scriversi in fronte quell’antico distico, tratto da un greco epigramma:
Si meus ad Solem statuatur nasus hianti
Ore, bene ostendet dentibus hora quota est.
Diogene, il Can maggiore de’ Filosofi Cinici, avea il suo palagio, anzi il suo nido, in una botte. Questo era il Cielo, ch’egli girava; Intelligenza appunto degna di