Dell'uomo di lettere difeso ed emendato/Parte seconda/1

Parte seconda - 1. Ladri , che in più maniere s'appropriano le fatiche de gli studj altrui.

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Parte seconda - 1. Ladri , che in più maniere s'appropriano le fatiche de gli studj altrui.
Parte seconda Parte seconda - 2
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LADRONECCIO

1.

Ladri, che in più maniere s’appropriano le fatiche
de gli studj altrui.

L’antichissima Arte del rubare, Figliuola naturale della Necessità, benchè dipoi adottiva del Commodo, s’esercita nelle Lettere così bene come ne’ danari. Clemente Alessandrino ne rapporta a sì antichi tempi l’origine, che si può dire, che le ricchezze degl’Ingegni non prima cominciarono a comparire che ad esser rubate; e l’Elene delle più belle composizioni, tosto che si lasciaron vedere, trovarono cento Menelai, cento Paridi, che le rapirono.

Nè vi sia chi pensi (torcerò per ischerzo a mio proposito il senso di quell’antico detto del Comico), che solamente Homo trium litterarum sia il medesimo che Fur; cioè, che vizio solo d’uomini di poche Lettere sia il rubare le altrui fatiche, e con esse comparir belli e farsi ricchi. Anche i più nobili ingegni e le più dotte penne hanno onorata quest’arte, ajutandosi con l’altrui; onde non meno de’ grandi Leoni che delle piccole Formiche s’avvera, che

Convectare juvat prædas, et vivere rapto.

Gli scritti del grande Aristotele, è fama che sieno un bel lavorio a musaico, fatto di proprio disegno, ma di materia la maggior parte altrui. E se Speusippo, nella compera de’ cui libri egli spese tre talenti, se Democrito, se altri tali, le fatiche de’ cui ingegni Alessandro gli raccoglieva, ripigliassero ognunó d’essi il loro; chi pareva una Fenice coll’altrui, comparirebbe col suo una Cornacchia. [p. 5 modifica]

Platone da un maldicente udì tacciarsi di ladro, con querela fatta a nome di Filolao, come se avesse non vo’ dire trascritta da lui gran parte del suo Timeo, ma impolpatolo di buon sugo succiato da gli scritti di quel secondo Pitagora. Eccovi l’accusa datagli da Timone1

          Exiguum redimis grandi ære libellum,
          Scribere per quem orsus perdoctus ab inde fuisti.

E certo, se vi fosse un Archimede2, che sapesse ’ne’ libri distinguere, quasi misto di due metalli, il proprio e l’altrui; se un’Aristofane giudice, che intendesse la lingua de morti, quando parlano per bocca de’ vivi; se un Gratino, che mettesse i libri alla tortura e facesse il processo de’ loro furti, come egli fece delle Poesie di Meuandro de’ cui ladronecci compose sei libri; vedreste quanto sia vero, che Mercurio Dio de’ Letterati è insieme Dio de’ Ladri3.

Ma in tre ordini, l’uno peggior dell’altro, pare a me che ripartire si possa tutta la massa di coloro, che ne’ loro libri publicano sotto proprio nome le altrui fatiche. Sono i primi coloro, che cogliendo da chi una e da chi un’altra cosa, e trasportandole or sotto diverso titolo e or con ordine contrario, tessono i libri come le ghirlande, nelle quali molti pochi fanno un bel tutto, molti fiori fauno una corona. Hanno questa discrezione, di rubar poco ad ognuno, perchè niuno si dolga, e pochi s’avvega gan del furto; e (dirò così) non rubano le monete, ma le tosano.

Il nome di questi Autori, a gran caratteri maestosamente scritto nella prima faccia del libro, stupisce di ve dersi padre di tanti frutti, de’ quali egli sa di non aver nè virtù produttrice, nè seme che generar li possa:

          Miraturque novas frondes, et non sua poma.

Si vede ricco di tanti stabili; e pur sa di non aver no rendita, nè capitale bastevole a sì gran compera

Hanno dipoi costoro per legge di non paccordar mai gli Autori, me gli scritti de’ quali fecero caccia sospettando, e con ragione, di non esser conosciuti più per ladri [p. 6 modifica]che per cacciatori. Non curano Plinio, che disse4, obnoxii animi, et infelicis ingenii esse, deprehendi in furto malle, quam mutuo reddere; cum præsertim sors fiat ex usura. Non quell’antica usanza riferita da M. Varrone, di coronare una volta l’anno con odorose ghirlande di fiori i pozzi, per mercede dell’acque limpide e vive che da essi s’attingono.

Anzi avvien molte volte (e questo è il soprafino dell’arte di simili ladronecci), che si prendano a condannare di poco sapere e rifiutar come poveri di Lettere quegli stessi, da’ quali presero ciò che han di buono; affinchè, mostrandosi schifi della loro dottrina, non si creda che ne siano ladri. Così fanno i torrenti, chè, dove rompono con la piena, svellono, rubano, e portan seco; ma di quel che rapiscono, ingojano il sodo, e mostrano solo gli sterpi, le paglie, e le immondezze. Questa è ben maniera propria d’Arpie, trarsi la fame all’altrui mensa, nè contentarsi con rapire quel che si porta, se di più non s’imbratta quel che si lascia. Questo è fare de’ valenti Scrittori ciò, che il pessimo Dionigi faceva de’ suoi amici5; i quali diceva Diogene che come vasi di buon licore gli smugneva fin tanto ch’erano pieni, poi li rompeva quand’erano vuoti. Questo è essere appunto ciò, che nello stretto di Sicilia presso al Faro sono que’ due infami mostri Scilla e Cariddi, delle quali la prima rompe le navi e sparge le mercatanzie, l’altra co’giri suoi le rapisce e in una gran voragine se l’inghiotte. Non condannan costoro l’altrui per ributtarlo, ma per ingojarlo: Nec expuunt naufragia, sed devorant, disse Tertulliano6.

Odan per tanto, come detto a lor soli, ciò che in acconcio d’altri affari raccordò il moralissimo Plutarco7: Non debemus suffurari gloriam eorum, qui nos in altum extulerunt; nec esse ut Regulus Aesopi, qui deseruit Aquilam, cum ea lassa ulterius non potuit volare.

Peggio di questo fanno i secondi, che trovando, non so come, opere imperfette di bravi Maestri di Lettere, pietosi ricoglitori, come l’Ossifrago degli Aquilotti [p. 7 modifica]caduti dal nido e non ancora impennati, se li prendono in casa, e, quasi abbandonati ed esposti, per proprj gli adottano.

La vergogna di parere ignoranti vince in essi l’infamia d’esser ladri; e non ascoltan Sinesio, che dice8, magis impium esse mortuorum lucubrationes, quam vestes furari, quod sepulchra perfodere dicitur. O quanti, se potessero uscir di sotterra o trarre almeno il capo fuor delle tombe, in vedere le proprie fatiche fatte eredità di chỉ niuna ragione aveva di succedere ab intestato, direbbero con quel disperato Pastore di Mantova:

Insere nunc, Melibæe, pyros; pone ordine vites.

Modestissima legge di que’ non meno bravi che discreti Pittori della Grecia, osservata in ogni tempo, era, onorare la memoria de’ valenti maestri di quell’arte con non metter pennello a compimento d’opera, ch’essi prevenuti dalla morte avessero lasciata o senza l’ultima mano o imperfetta; il che era un dire, che più belli erano quegli avanzi così dimezzati e tronchi, che non se per man loro fossero esattamente compiuti. Di questo parlando lo Storico9, Illud perquam rarum, disse, ac memoria digrum, etiam suprema opera Artificum imperfectasque tabulas, sicut Irin Aristidis, Tyndaridas Nicomachi; Medæam Timomachi, et Venerem Apellis, in majori admiratione esse, quam perfecta.

Or nelle Lettere non v’è per molti legge di sì buon termine o di tanta lealtà, perchè troppo più del dovero è ognuno ingordo della lode d’uomo d’ingegno: perciò si metton le mani nelle imperfette opere altrui, non per compirle all’Autore, ma per incorporare, contra ogni buona regola di giustizia, il principale altrui al suo accessorio.

Chi ritruova un tesoro ne’ suoi poderi, abbiasel tutto (concede l’Imperador’Adriano10); ma se ne gli altrui, si riparta, e ne abbia la metà il padrone del campo. Legge, se giusta ne’ danari, nelle ricchezze dell’ingegno giustissima.

Ma i terzi sono da non sofferirsi; quei, che alle fatiche [p. 8 modifica]altrui non aggiungono altro che il proprio nome: uomini di poca faccia; che non avendo in un libro altro che la prima facciata, come il Giumento delle favole non portava di Lione fuor che la pelle, tutto il rimanente appropriano a sè; appunto come se l’impadronirsi d’un libro fosse dedicare un tempio a un Dio, di cui basta scrivervi su la facciata il Nome. Che altro fece Caligola, quella bestia vestita da Imperadore, quando troncata la testa alla statua di Giove Olimpio, per essere egli adorato come Giove, vi pose la sua? I Persiani credevano, che il maggior di tutti i peccati fosse l’essere indebitato, e dopo questo l’esser bugiardo. L’uno è l’altro sono costoro; perchè ciò che hanno devono ad altrui, e non l’hanno altrimenti che mentendosene con una svergognata bugia padroni11.

Un di costoro, a cui era rimproverato un simil furto, mentre s’aspettava che, non potendo nascondere il fatto con la bugia, nascondesse almeno il volto con la vergogna, franco di fronte sì come era presto di mano, si pose in guardia, e facendosi schermo con la Simpatia, di cui tanto romore fanno alcuni Filosofi, rispose arditamente, non potersi provare lui essere involatore degli scritti di verun’altro, se prima non si provava essere fra loro dissomiglianza di mente; conciosiecosachè due ingegni uniformi e consonanti di genio, abbiano, per virtù di simpatica unione, e gli stessi movimenti nell’animo e il medesimo ordine ne’ pensieri. Or vadano il Keplero, il Mersenio, il Galileo12 a rinvenire l’occulta cagione, perchè due corde tese all’Unisono, all’Ottava,’e alla Quinta, sono fra di loro sì d’accordo, che, se l’una si tocca, l’altra non toccata guizza e si muove. Ecco un problema di più difficile scioglimento: come esser possa, che due cervelli per via di simpatico consentimento s’accordino a scegliere uno stesso argomento, a spiegarlo con le medesime forme di dire, senza divario nè pur d’un’apice, non che d’una parola; in fine, con tanta somiglianza di statura, di voce, [p. 9 modifica]e di fattezze, che ne perderebbono i Menecmi di Plauto13 benchè

          Ita forma simili pueri, uti nutrix sua
          Non internosse posset quæ mammam dabat,
          Neque adeo mater ipsa quæ illos pepererat.

Dalla destrezza, che molti hanno in rubare gli scritti altrui, è nata la gelosia per custodirli, e le querele quando avviene che ne sieno furtivamente levati.

Ancor la Natura ha insegnato a gli animali che due cose la più preziosa e la più soave producono, tanto più ingegnosamente difenderle da’ ladroni, quanto essi più avidamente le cercano. Così le Conchiglie madri delle perle, quando la luce della mattina le squopre, si chiụdono; e se v’è chi ad alcuna s’accosti mentr’è ancor’aperta, benchè per altro cieca, cum manum videt, comprimit sese, operitque opes, gnara propter illas se peti; manumque, si præveniat, acie sua abscindit, nulla justiore poena14. Così le Api con amarissimi sughi aspergono i loro alvearj contra aliarum bestiolarum aviditates; id se facturas consciæ, quod concupisci possit15. Ma perchè

          Nil est deterius latrone nudo16,

e contra questi ladri Mercurj non basta tener come Argo cent’occhi in sentinella; quindi eccoci alle querele, delle quali molti Autori, molti libri son pieni.

E certo, in ciò difficile è la pazienza, e ragionevole il dolore. In fin le morte statue di bronzo, disse Cassiodoro17, se da’ notturni ladroni si battano per ispezzarle, benchè non abbiano senso per dolersi, hanno però grida per lamentarsi; con che nec in toto mutæ sunt, quando, a furibus percussæ, custodes videntur tinnitibus admonere.

Ma eccovi in due brevi ricordi il rimedio contra questa viziosa fame delle altrui fatiche. Il primo è, che vi persuadiate, che il mondo non è Fiscale di sì poco sapere, che dalla publica fama, o più tosto infamia, da [p. 10 modifica]gl’indicj, da’ testimonj, non venga, quando che sia, in cognizione del furto: onde non vuol farsi mai, quantunque occultamente, con isperanza che niuno abbia a risaperlo. Voltate pure sossopra, perchè pajano vostre, l’ordine delle cose che da altrui traportate a vostr’uso; chẻ in ogni modo, se voi siete un Cacco avveduto in volgere al rovescio le vestigie delle prede che vi tirate in casa strascinandole per la coda, non vi mancherà un’Ercole, che su quell’orme istesse rintracci il furto e la frode, e ne punisca l’autore. A voi medesimo uscirà di bocca o della penna qualche parola, che darà a gli accorti indicio del fatto; e sarete anche in ciò come i Corvi, che non rubano mai sì accortamente, che col becco insanguinato e con la preda in bocca non gracchino: con che senza avvedersene chiamano i sassi, che ne li caccino.

          Nam tacitus pasci si posset corvus, haberet
          Plus dapis, et rixa minus invidiæque18.

Ma quando ben voi taceste, parleranno contro di voi le vostre carte, e il vostro libro medesimo sarà il processo.

Su questa sicurezza, Marziale, de’ cui Epigrammi molti si facean belli e Poeti, vendendoli come loro, non consumava scritti o parole per accusa de’ ladri e difesa del suo.

          Judice non opus est, nostris nec vindice libris.
          Stat contra, dicitque tibi tua pagina: Fur es19.

Il secondo è, che vi persuadiate, che molto minor male è non parer dotto, che parere ignorante non avendo del suo, e ingiusto rubando l’altrui. Se v’è tocco un capo povero di capelli (che sono simbolo de’ pensieri, ricchezze della mente), non vogliate sveller da’ morti i loro, e farvi d’essi una mal’acconcia capelliera.

          Calvo turpius est nihil comato20.

Meglio è esser povero del suo, che ricco dell’altrui. Poter dire: Questo è mio, benchè sia poco; è molto più dolce, che dire: Questo è molto, ma non è mio. I più cari versi, che Manilio leggesse nel suo poema21, eran que’ due: [p. 11 modifica]

          Nostra loquar. Nulli vatum debebimus orsa,
          Nec furtum, sed opus veniet.

Scrivete voi ancora in modo, che sopra ogni vostro componimento possiate far comparire quel distico, che il Poeta Ariosto tenea scritto sopra la porta della casa sua.

          Parva sed apta mihi, sed nulli obnoxia, sed non
               Sordida. Parta meo sed tamen ære domus.

Note

  1. Gell. lib. 4. 6. 17.
  2. Vitruv. præfat. lib. 7
  3. Gyrald. Histor. Poet.
  4. In præf. oper.
  5. Laert. in Diog.
  6. Tertull. de Pall.
  7. In praec. ger. reipubl.
  8. Ep. 14.
  9. Plin. lib. 23. c. 11.
  10. Spart. in Adr.
  11. Plut. de vitando ære alieno.
  12. Kepler l. 3. Har. prop.; Mersen. in Gen., Galileo, in Dial. nov. Phil.
  13. In prol.
  14. Plin. lib. 9. c. 35.
  15. Plin. lib. 1. c. 6.
  16. Mart.
  17. Libr. 7. ser. 21.
  18. Horat.
  19. Mart.
  20. Lib. 1. Ep. 54.
  21. Lib. 2.