Del vietare la stampa di libri perniciosi al buon governo
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DEL VIETARE LA STAMPA DI LIBRI PERNICIOSI AL BUON GOVERNO
(17 agosto 1615)
Serenissimo Principe,
Eseguendo il commandamento di Vostra Serenitá di estender in scritto quello che riverentemente dissi in voce con brevitá nell’eccellentissimo Collegio il dí 14 del presente in materia di stampe; tralasciando la relazione del libro particolare, che diede motivo al ragionamento, incominciarò dalla proposta principale, la decisione della quale fará risoluzione anco di quel particolare e d’ogn’altro.
La mia esposizione fu che sí come la sapienza publica giá ha proveduto per importantissime ragioni che nessuna cosa sia stampata se non veduta da un secretario, cosí al presente è necessario statuir le regole, le quali osservando, il secretario possi formar sicuramente il giudicio suo: quali libri siano da permettere e quali da proibirne la stampa come perniciosi al buon governo, cosí di quelli che di novo saranno proposti in luce, come di quelli che altrove stampati si tratterá di ristampare in questa cittá. E non s’ha da guardar che per il passato non se n’abbia veduto il bisogno, perché scoprendosi nove offese, convien anco usar novi modi di defendersi. Questa provisione non fu fatta giá, quando si diede il primo ordine, perché essendo in quei tempi li rispetti degli ecclesiastici e quei del governo secolare li medesmi, ed avendo le istesse massime, e dandosi la mano l’un l’altro per scambievole aiuto, gl’inquisitori avevano cura che non si stampasse cosa contraria alla religione né alli rispetti del buon governo de’ popoli, ed il secretario serviva solo per qualche rispetto secreto incognito all’inquisitore. Ma giá cinquanta anni li interessi del governo ecclesiastico incominciarono a farsi diversi da quei del temporale, e pian piano sino al tempo presente sono venuti a tanta contrarietá, che di quello che al temporale tocca non si può piú, come giá ne’ tempi andati, rimettersene alli inquisitori, li quali hanno interessi tutti contrari; ma è necessario che il principe abbia ministri secolari che ne prendino esatta cura.
Nel principio che il mal nacque, il primo principe che se n’avvide fu il re Filippo II di Spagna, il qual considerando l’importanza del negozio, fece una legge per quale levò la stampa dalla sopraintendenza degli ecclesiastici, lasciato a loro soltanto la cura delli messali, breviari e carte da insegnar a’ putti la grammatica, e del rimanente diede la cura ad un conseglio, che eresse per sopraintendere a questa materia, dal quale furono terminati capitoli e regolate le cose come li interessi del governo ricercano. Al presente le cose sono ridotte al colmo, che è cieco chi non vede la peste che alcuni libri portano al governo civile. Da pochi anni in qua esce quotidianamente un stuolo di libri, che insegnano non esser da Dio altro governo che l’ecclesiastico; il secolare esser cosa profana e tirannica, e come una persecuzione contro li buoni, da Dio permessa; che il popolo non è obligato in conscienzia ubidir le leggi secolari né pagare le gabelle e publiche gravezze, e pur che l’uomo sappia far sí che non sia scoperto, tanto basta; che le imposizioni e contribuzioni publiche per la maggior parte sono inique ed ingiuste, e li principi che le impongono scommunicati; che per queste leggi inique e scommuniche de’ principi vengono le mortalitá, carestie ed altri publici infortuni; e in somma li principi e magistrati sono rappresentati e posti in concetto de’ sudditi per empi, scommunicati ed ingiusti; che sia necessario temerli per forza, ma in conscienzia sia lecito far ogni cosa per sottrarsi dalla lor soggezione. E per soprabondanza del male, la desgrazia o la malizia di qualche persona cattiva ha eccitato il disparere tra la Santitá del sommo pontefice e la serenissima Republica gli anni passati sopra quattro capi di leggi: che beni laici non possino esser alienati in ecclesiastici senza licenza; che non possino essere fabricate nove chiese senza permissione publica; che li beni con titolo di dominio utile possessi da’ laici non possino esser appropriati dagli ecclesiastici, e che il publico governo possi giudicare le persone ecclesiastiche in casi enormi. Il qual disparere avendo avuto per divina bontá quel fine che era giusto in favore e riputazione della serenissima Republica, la corte di Roma ed altri inquieti dell’ordine ecclesiastico, scoppiando per l’invidia, vogliono per vie oblique ed occulte levar la riputazione acquistata e ritirarla dal canto loro; e per tanto cercano ogni via che siano inserte quelle questioni nelli libri che si stampano, e decise secondo l’opinione romana, e che questi libri siano ristampati in Venezia; e studiosamente operano che dalli sudditi del serenissimo dominio particolarmente escano decisioni e consulti in quei propositi. E quantunque si potesse far dubio di questa intenzione, non ostanti le relazioni e congetture che si hanno, questo è ben certo, che cosí continuando, in fine, quando si vedrá numero grande di libri stampati in Venezia con dottrina contraria alle leggi sopradette, seguirá che il mondo dirá che li Signori veneziani hanno conosciuto d’aver sostentato una causa ingiusta, perché altrimenti non averebbono concesso che fossero stampati nella loro cittá libri che condannino le cose con tanto ardore e spesa difese, massime non avendolo fatto per trascuratezza, ma con certa deliberazione, avendo fatto veder li libri dal suo secretario, e fatto fede che li libri sono degni di stampa.
Questa narrazione ho giudicato necessaria per espressione del male che ha bisogno di medicina; la qual non è sufficiente con la sola deputazione del secretario, senza aggiongerci le regole che debbe servare nel negar la stampa alli libri overo admetterli, perché trattandosi di stampare o ristampar un libro, non mancano fautori dell’autore o dello stampatore che, se il secretario censura qualche parte, non dicano che è troppo scrupoloso e lo constringano ad acconsentirvi con preghiere a quali non si può resistere. Dall’altro canto, quando il libro è visto, li disinteressati riprendono le cose che reputano pregiudiciali al publico servizio, ed alle volte il zelo li fa trapassar li termini: e questi rispetti sono causa che il secretario, incerto di quello che si debbia fare, non sappia risolversi, overo procedi diversamente; e questi istessi rispetti sono anco causa di far passar il negozio nell’eccellentissimo Collegio, e occuparlo in decidere se convenga o no lo stampar qualche libro particolare. A questi inconvenienti non è altro rimedio appropriato se non, come ho detto, formar regole, le quali il secretario abbia da osservar inviolabilmente, che cosí si camminerá sempre ad un tenore senza deformitá, e le ragioni publiche non saranno pregiudicate; sará serrata la bocca alli interessati ed alli soverchiamente zelanti, e l’eccellentissimo Collegio non sentirá la noia di dover decider nel particolare quello che sará di publico servizio, poiché l’averá deciso in generale, ed il secretario potrá operare con certezza di camminar sicuro, avendo il lume publico innanzi gli occhi.
Per aprir la strada a far risoluzione in questo negozio si possono distinguere li scrittori di questa materia in quattro classi. Alcuni sono che biasmano e condannano e censurano le quattro sopranominate ordinazioni, overo altre leggi, imposizioni di gravezze, decreti e sentenzie de’ magistrati, nominando particolarmente la serenissima Republica overo la cittá di Venezia. Altri che parimente condannano o quelle o altre leggi che la Republica usa, non nominandola in particolare, ma solo con termini universali contra li principi che le statuiscono, forse anco non avendo pensiero a questo Dominio, ma a qualche altro dove il loro affetto mira, e dicendo in generale che li príncipi, quali ciò fanno, sono scommunicati o peccano mortalmente o non possono esser assoluti, overo andaranno al diavolo, ed altri simil termini. Un altro grado è di quelli che disputano contro le ordinazioni sopradette, e non le hanno per giuste e legitime, e tentano d’oppugnarle con ragioni, ma però s’astengono dalle maledicenze e censure. Un quarto grado è di quelli che non condannano alcuna legge overo ordinazione de’ principi, ma solo dicono che tutte sono soggette alla potestá ecclesiastica, quale può annullarle o confirmarle, e conceder o negar licenza delle gravezze; e che li principi, quali non regolano li statuti o gravezze conforme alla volontá ecclesiastica, peccano, e li popoli non sono tenuti ad osservarli.
Questi quattro gradi, che sono molto diversi tra loro, con una divisione riescono otto, perché quattro sono quanto alli libri che si tratta di stampar di novo, non essendo piú stampati; e altri quattro in quelli da ristampare, essendo stati per inanzi altrove stampati. Io li ho così separati per rappresentarli piú distintamente. Sará facil cosa che da VV. EE. Ill.me sia giudicato di comprenderne piú di essi sotto una medesima regola negativa o affermativa, e con quattro o vero cinque regole dar conveniente forma a questa materia, la qual io chiamerò (credo con vocabolo conveniente) «la libertá ed autoritá de’ principi secolari», sí come la contraria è chiamata «la libertá ed immunitá ecclesiastica ». E non credo che sará fuori di proposito se aggiungerò qui li modi come li ecclesiastici regolano le stampe in questa parte della libertá ed immunitá ecclesiastica, perché saranno esempi o da imitare o da evitare nel regolar quelli della libertá ed immunitá secolare.
Essendo, come ho detto, in questi tempi fatta adulta la contrarietá tra li governi ecclesiastico e secolare, che giá erano tanto concordi, del 1595 a Roma furono publicate le regole come governarsi nelle stampe quanto a questa materia, e furono le infrascritte: che non si admetta assolutamente in qualsivoglia libro alcuna proposizione contra la libertá ed immunitá ecclesiastica; che non si admetta alcuna proposizione cavata dalla dottrina ed esempi de’ gentili per confermar la ragione di stato (ragione di stato dimandano essi tutte quelle massime che impediscono la sopraintendenza ecclesiastica in tutti li negozi civili de’ principi e magistrati ed in tutti li domestici delle case); che li libri composti e stampati dal 1515 fino a quel tempo, se contengono alcuna delle sudette cose o altre a loro pregiudiciali, siano corretti con aggiungervi, levar o mutar quello che fará bisogno per farli parlare correttamente e conforme alla dottrina approvata; che nelli composti inanzi il 1515 non sia fatta mutazione, se non dove vi fosse corruzione o per malizia degli eretici o per fallo de’ librari, ma se gli faccia delle note, osservazioni o scolii che correggano.
Da questo ognuno potrá ben vedere la causa perché non si ritrovino libri a favor dell’autoritá temporale. Dal 1595 in qua non se ne può stampare. Li scritti precedentemente sino al 1515 sono stati con aggiunte, detrazioni ed altre alterazioni mutati in sensi contrari alla sentenzia dell’autore; e chi ha conservato delle stampe vecchie e le confronta con le moderne, vede che li libri adesso parlano in contrario di quello che gli autori scrissero. Li precedenti il 1515, sotto pretesto che siano corrotti o che lo stampatore abbia errato, non sono sinceri.
Questa maniera di mutar le parole, overo alterar il senso con aggiunzione e detrazione, non è da imitare; prima perché tutto il mondo l’aborrisce, la biasma e la chiama vizio di falsitá; poi ancora perché gli ecclesiastici, che lo fanno publicamente ed in vista di tutto il mondo, dicono che non è lecito ad altri che a loro il farlo, e se si facesse, moverebbono lite, sí come giá dieci anni hanno preteso di proceder con censure contro un magistrato d’una cittá, che non volendo admetter la stampa d’un libro del gesuita Suarez come pregiudiciale molto al governo della sua cittá, si contentò che si stampasse senza quella parte, ed a Roma lo riputarono delitto, e diedero principio a proceder contro quella persona; ma furono constretti desistere per accidenti di maggior momento che sopravennero. Però nelli libri stampati altrove, oltre che non è giusto e condecente, non è cosa onorevole né sicura far alcuna mutazione, e dar nome che a Venezia si castrano libri, come si dice di qualche altra cittá con infamia.
Ma quanto alli libri che non sono stati veduti per inanzi, se l’autore è suddito, con buona ragione si debbe ordinare che acconci il suo senso allli rispetti publici, overo desista dallo stampare. Se non è suddito, è pericolosa cosa, fargli far alcuna mutazione, e piú tosto è da negargli assolutamente la stampa. Giá dieci anni occorse che un tal Alessandro Pesanzio stampò qui un suo libro che in piú luochi accommodò a gusto d’un reformatore d’allora; e poi partito, lo fece ristampare in Roma con molte maledicenze verso quel magistrato ed il publico: e trattò con tanto poco rispetto, che meritava qualche provisione straordinaria.
Quanto al far nota nella margine, quando vi sia il modo di farla viva e salda, è cosa da lodare, come, avendo un dottor celebre che tratti in contrario, notar nella margine: « vedi il tale in tal luoco che tratta con veritá ». Questo sará un buon rimedio al pregiudicio. Ma per far una nota negativa o assertiva senza sale, come sarebbe: « questo non è vero », o « questo è falso », overo: « questo è da altri confutato », è cosa che metterá in deriso, e piú tosto fará danno che beneficio.
Alcuni hanno opinione che il proibir la stampa di qualche libro debbia esser destruzione di quell’arte. A’ quali debbo rispondere che se una proibizione d’innumerabili libri fatta dagli ecclesiastici (non parlo per causa di religione, perché il rispetto di vietarli è giustissimo e necessario, ma parlo d’innumerabili altri libri, che per rispetti temporali loro non vogliono che siano restampati), se questa non distrugge le stampe, meno patiranno per alcuni pochi proibiti per interesse publico; e sarebbe poco ragionevole creder che il secretario dovesse rovinar le stampe proibendo il stampar dieci libri, e l’inquisitor non le rovinasse proibendone mille. E chi ha questo rispetto all’arte debbe piú tosto far opera che possino stampar que’ molti che gli vengono proibiti per interesse d’altri, che quei che si debbono vietare per interesse publico.
Dirò ben io ancora che nel dar le regole senza dubio s’ha d’aver risguardo al maggior commodo dell’arte de’ librari e stampatori, sempre però considerando e pensando questo rispetto con gli altri. Tutte le leggi contra le pompe sono di danno a qualche arte; non però si resta di farle quando prepondera il publico servizio; e la merceria in Venezia non è arte di minor conto che la libraria. Il contrapesar queste contrarietá è proprio di VV. EE. Ill.me, ed insieme il determinar sin quanto il publico debbia condescender al privato, e il privato contentarsi di preferir l’interesse publico al proprio. Senzaché il numero de’ buoni libri e che sarebbono di gran spazzo è cosí grande che duplicando anco il numero de’ libri, librari e stampatori, vi sarebbe dove metterli tutti in opera.
Questo discorso servirá per una congerie di materia rozza, alla quale debbia esser dato buona forma dalle prudenti considerazioni di VV. EE. Ill.me.