Del veltro allegorico di Dante/XLIII.
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XLIII. Tristo fine, mentre Can Grande restituivasi a Verona, sortiva l’ambasceria di Arrigo VII ai fiorentini; della quale con amabile ingenuitá scrisse la storia Niccolò vescovo di Butrintò. Giunti a Modena i legati, Bologna proibi loro l’andare per le sue terre: discesi nel Mugello per le montagne di Modena, simil divieto gli allontanò da Firenze: giá erano pervenuti alla Lastra, ed eccoli posti a ruba dai masnadieri. Furono albergati dal conte Guido Salvatico in San Godenzo: di lá si condussero presso il vescovo Ildebrandino di Romena in Arezzo, donde intimarono alle cittá ed ai signori di rendere omaggio ad Arrigo VII. Fra quelli, ai quali ciò venne significato, Niccolò di Butrintò annovera Uguccione della Faggiola, che vivea da privato nei suoi castelli. E tosto il Faggiolano insieme col nipote Faolozzo e con Federigo di Monte Feltro prese ad andarne in Genova per Arezzo e per la Maremma sanese: lui per la stessa via seguitarono immantinenti gli ambasciadori. L’Alighieri cogli altri esuli si ridusse parimente appo il re dei romani: 1 ’Alighieri, al quale, se non mentisce la fama, grave oltraggio recarono in Genova gli amici di Branca Doria, per quello che di costui avea detto un di nell’Inferno.
Arrigo VII. lasciato in quella cittá vicario imperiale il suo congiunto Guglielmo di Aspromonte, recossi a Pisa (1312): quivi con solenni ordini e con lunga pompa gli giurarono i popoli fedeltá. I ghibellini, all’aspetto dell’aquila imperiale mal ponevano modo alle lagrime: la veneravano essi quale dono e segno del cielo, tenendo a vile i bianchi, si come coloro che avessero ancora del guelfo. Uguccione della Faggiola, Federigo di Monte Feltro, il marchese Spinetta Malaspina di Fosdinovo, e Gaddo della Gherardesca ottennero i primi seggi dopo il re dei romani: tra i bianchi, Palmieri degli Altoviti esiliato insieme coll’Alighieri ed alcuni dei Cerchi furono innalzati a cariche ragguardevoli. Clemente V a quei giorni, lietissimo di aver ritratto Filippo il bello dal desiderio di veder condannata la memoria di Bonifazio VIII, aboliva l’ordine dei templari nel concilio viennese del Delfinato: delle immense ricchezze loro crederono i piú, che Filippo il bello in Francia e Roberto in Napoli avessero a bell’agio fatto il lor prò. Ma turbava i riposi di Roberto il sopravegnente Arrigo che da Pisa giungeva in Roma per la Maremma, e cui Luca il cardinale dei Fieschi cingeva il capo della corona imperiale (giugno 29). Indarno si oppose Roberto, indarno circondò il Vaticano di armati: ei non tolse che Federigo di Sicilia non pattuisse alleanza con Arrigo VII e fauste nozze tra i loro figli. Dopo le quali cose, ritornato l’imperatore da Roma per Perugia ed Arezzo, invase il contado fiorentino, e stretta Firenze di assedio, pose l’oste a San Salvi (settembre 12): Uguccione della Faggiola ebbe in quella fazione titolo ed autoritá di suo consigliere di guerra. I figli di Ugolino da Feliccione con altri Ubaldini levaronsi nuovamente contro Firenze. Allora gli esuli si crederono vincitori: e non che il bollente Alighieri ma i piú temperati fra i bianchi giá col pensiero assaporavano le vendette. Dino Compagni terminava in quel punto la storia, minacciando che in breve Cesare avrebbe guastato e rubato Firenze (ottobre 31). Pur l’assedio fu vano: e l’imperatore drizzò l’esercito a San Casciano, indi a Poggibonsi. La conquista di Casole nel sanese terminò in quell’anno la guerra: Uguccione della Faggiola e Federigo di Monte Feltro animosamente si sospinsero nella rocca, e la tennero in nome di Arrigo (dicembre).
Ma nuovi casi ne trassero il Faggiolano. Grave sedizione agitava i petti dei genovesi, né tacevano i Fieschi, e debole freno ai ribellanti era l’alemanno vicario Aspromonte. Arrigo VII, rimosso questo suo congiunto da Genova, inviò Uguccione piú gagliardo reggitore di popoli: che, puniti alquanti, sbigotti gli altri e racquietò la cittá. Irato ai Fieschi per quelle turbolenze, finse 1 ’ Alighieri che l’ombra di Adriano V gli si fosse fatta innanzi crucciosa per la malvagitá dei suoi parenti, e pregando che il loro esempio non dovesse corrompere Alagia Malaspina: lei sola fra tanti Fieschi Adriano riconobbe per sua nipote (Pitrg. XIX, 142-145). Ma irato a Roberto assai piú che ai Fieschi, Dante proruppe in piú amara invettiva contro tutta la casa di Francia e di Napoli, da Ugo Capeto detto il bianco e l’abate fino a Filippo il bello, cui rimprovera le crudeltá contro Bonifazio VIII, e la cupidigia con che alle ricchezze dei templari disteso aveva la mano (Purg. XX, 93).
Poco innanzi che Arrigo assediasse Firenze, maggiori moti che in Genova si erano suscitati contro esso e Can della Scala in Padova, impaziente di aver perduto Vicenza, ed unita con Trevigi donde i signori di Camino furono discacciati (dicembre 15). E i padovani saccheggiarono il vicentino ed il veronese: pur lo Scaligero non poche terre dei nemici distrusse con fiamma vendicatrice. Cosi fra dubbi eventi ondeggiava la fortuna di Cesare non meno in Toscana che in Lombardia: ma, quando Casole fu presa, la guerra fiorentina degenerò in processi ed in mostre giudiziarie fra i combattenti (1313). L’imperatore sentenziò a morte meglio che seicento fiorentini (febbraio 23), e, con essi Fazio da Signa e Baldo di Aguglione, l’uno detto villano e l’altro barattiere da Dante (Parad’. XVI, 55 e 57): assistevano al trono imperiale Federigo di Monte F’eltro, Francesco di Tano Ubaldini, Baschiera Tosinghi, Giano dei Cerchi, e Paolozzo della Faggiola. Non meno sollecita rispondea Firenze con minacce di esterminio contro i suoi cittadini che in numero di quattrocento sessantanove aveano seguito Cesare all’assedio: e perché nulla mancasse agli orrori delle gare civili, Gerardo Alighieri, zio dell’esule Dante, drizzava queste tavole di proscrizione (marzo 7 e 29). Dal silenzio di esse intorno al poeta raccogliesi, ch’ei non fu all’assedio di Firenze, quantunque confortatore della venuta di Arrigo: nel qual tempo Dante scrisse il suo libro latino della Monarchia, forse in Pisa ove in breve si troverá.