Del riordinamento amministrativo del Regno (Carpi)/VIII
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Per fare delle buone leggi organiche conviene stabilire dei principii generali ai quali informarle. Principii che non debbono soltanto trarre origine dalle verità filosofiche universali, e dalla coscienza ontologica del progresso umano, ma debbono altresì venire temprati, nell’ultima loro formula di attuazione, dalla condizione dei tempi, dei luoghi, e delle persone.
Stabilite le massime generali resta poscia più facile il còmpito di codificazione, avendosi la pietra di paragone a cui riferire ogni parziale ordinamento.
Egli è con questo intendimento che mi permisi esporre alcune idee generali sul riordinamento amministrativo del Regno, dalle quali senza entrare in troppe quistioni di dettaglio, parmi, se non cado in errore, se ne possano dedurre le seguenti conclusioni.
1. Che per fare l’Italia una, grande, potente e ricca conviene che l’azione governativa sia accentrata, forte e risoluta sotto il solo controllo del Parlamento e della libera stampa.
2. Che per conseguenza l’organizzazione amministrativa dev’essere semplice, economica, con poche ruote che ne adempiano facili e pronte le funzioni, affinchè l’impulso governativo percorra ed avvivi colla celerità del lampo tutte le membra dello Stato, ricevendone con pari energia e rapidità le concentriche influenze.
3. Che nel determinarsi tale organamento in modo definitivo è a desiderarsi si desista dal fatale pensiero di creare Regioni corrispondenti alle circoscrizioni degli antichi Stati d’Italia. Sul resto sarei concilievole, ma su questo mi ripugna ad esserlo perchè vi è interessato l’avvenire dell’Italia e della Dinastia che ne è la gloria. Oltre ai pericoli discorsi, conviene aggiungere quello dei possibili pronunciamenti dei Consigli (fossero pure consultivi) di una o più Regione, e del possibile rifiuto collettivo delle imposte. Conviene riflettere che non solo resterebbero intangibili, nella parte fondamentale, le antiche divisioni di Stati, ma si dividerebbe quello che costò tanto ad unirsi, come la Sardegna ed il Genovesato dal Piemonte; e si dovrebbe riunire il Parmigiano ed il Modenese alle Romagne, le Marche all’Umbria, e così altri amalgami, contro ogni coefficente ragione, e con ripugnanza delle rispettive popolazioni; singolare avvicendamento di più singolare e nocevole idea. Conviene considerare che l’interpretazione erronea, violenta, o anche solo varia a seconda delle diverse tendenze, di una disposizione governativa, l’esitanza nell’esecuzione per parte anche di un solo uomo rivestito di così ampie facoltà come sarebbero i reggitori delle Regioni, può togliere dalle redini governative e dall’unisona influenza del potere centrale milioni d’uomini, con pericolo supremo, e tanto più se colui che fuorviasse avesse a reggere cinque o sei milioni di cittadini come avverrebbe nella bassa Italia. Conviene ritenere che le grandi opere per istrade, canali, fiumi, irrigazioni, prosciugamenti, colonizzazioni, dissodamenti, ed altre, interessano la prosperità di tutta la nazione, e non solo quella di una data Regione, la quale resterebbe in arbitrio di farle, o non farle, per non soggiacere a spese enormi contro ogni rane di giustizia distributiva. Conviene in fine convincersi che non sarebbe che uno espediente di Governo per girare, come suol dirsi, le difficoltà, ma non dettato da una sana ragione di Stato che affronta imperturbata e serena ogni ostacolo per raggiungere un grande scopo.
4. Che i Circondari (da non confondersi coi Distretti o Mandamenti) quali subordinanze provinciali, che non esistevano in nessun altro paese d’Italia fuori che in Piemonte, sono da eliminarsi come una superfetazione dispendiosa, una ruota parassita che rende più intralciato il movimento della macchina dello Stato, senza nessun reale ed evidente vantaggio.
5. Che eliminate le Regioni e tolti i Circondari, l’organizzazione amministrativa dovrebbe ridarsi alla sua più semplice e più naturale espressione, vale a dire, al Comune, al Distretto o Mandamento quale semplice circoscrizione giudiziaria e politica, alla provincia ed allo Stato.
6. Che al Comune, ente morale e provvidenziale per eccellenza, debba darsi la più ampia facoltà di reggersi da sè, restringendo al vertice i soli poteri che per loro natura potessero fuorviare contro l’interesse degli amministrati e dello Stato, o regolandoli con temperamenti liberali, ma di tal maniera che non possano mai arrestare la grande e potente azione iniziatrice e moderatrice del potere centrale. La legge Rattazzi è ben larga qualora si voglia giudicarla dall’attitudine a governarsi da sè di migliaia e migliaia di Comuni rurali, anzichè da quella di pochi cospicui Comuni dei grandi centri. Essa legge, che può restringersi nella sua forma didattica, va presa per base di ogni nuovo riordinamento comunitativo, e per bene operare converrebbe prendere ad esame tutte le leggi comunitative d’Italia per fare tesoro di ciò che vi fosse di meglio in ciascuna di esse. In tal guisa si farebbe una sola corona di molti gioielli senza orbarne nessuno, e ciò concilievolmente colle istituzioni liberali che ci reggono, e senza spingere troppo
oltre le franchigie elettorali e comunitative, per lasciare l’addentellato, pur sempre gradevole e necessario, a nuove riforme, mano mano che l’educazione ed il benessere delle masse si vadan facendo più generali. Il più bel dono poi che il Parlamento potesse fare ai Comuni sarebbe quello dei giudici di pace, studiandone l’istituzione sulle leggi americane, e non foggiandole alla francese o con quelle sbiadite forme che veste a Napoli, nel Lombardo Veneto ed in Piemonte. Così pure andrebbe studiata l’organizzazione dei Commissari e delle guardie campestri del Belgio che tolsero nel suo aspetto più nocivo la piaga dei furti campestri, commissari e guardie pagate concorrentemente dai Comuni e dal Governo.