Dei delitti e delle pene (1821)/XXVII

§ XXVII.

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XXVI XXVIII
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§ XXVII.

Delitti contro la sicurezza di ciascun particolare. Violenze.

Dopo questi seguono i delitti contrari alla sicurezza di ciascun particolare. Essendo questo il fine primario di ogni legittima associazione, non può non assegnarsi alla violazione del diritto di sicurezza acquistato da ogni cittadino [p. 85 modifica]alcuna delle pene più considerabili stabilita dalle leggi.

Altri delitti sono attentati contro la persona, altri contro le sostanze. I primi debbono infallibilmente esser puniti con pene corporali.

Gli attentati dunque contro la sicurezza e libertà dei cittadini sono uno de’ maggiori delitti; e sotto questa classe cadono non solo gli assassinii e i furti degli uomini plebei, ma quelli ancora dei grandi e dei magistrati, l’influenza dei quali agisce ad una maggior distanza e con maggior vigore, distruggendo nei sudditi le idee di giustizia e di dovere, e sostituendo quelle del diritto del più forte, del pari pericoloso finalmente in chi lo esercita e in chi lo soffre.

Nè il grande, nè il ricco debbono poter mettere a prezzo gli attentati contro il debole ed il povero: altrimenti le ricchezze, che sotto la tutela delle leggi sono il premio dell’industria, diventano l’alimento della tirannia. Non vi è libertà ogni qual volta le leggi permettano che in alcuni eventi l’uomo cessi di esser persona e diventi cosa: vedrete allora l’industria del potente tutta rivolta a far sortire dalla folla delle combinazioni civili quelle che la legge gli dà in suo favore. Questa scoperta è il magico segreto che cangia i cittadini in animali di servigio, che in mano del forte è la catena con cui lega le azioni degl’incauti e dei deboli. Questa è la ragione per cui in alcuni governi, che hanno tutta l’apparenza di libertà, la tirannia sta nascosta, o s’introduce, non prevista, in qualche angolo negletto dal legislatore, in cui insensibilmente prende forza e s’ingrandisce. Gli [p. 86 modifica]uomini mettono per lo più gli argini più sodi all’aperta tirannia, ma non veggono l’insetto impercettibile che li rode ed apre una tanto più sicura quanto più occulta strada al fiume inondatore. Quali saranno dunque le pene dovute ai delitti dei nobili, i privilegi dei quali formano gran parte delle leggi delle nazioni? Io qui non esaminerò se questa distinzione ereditaria tra nobili e plebei sia utile in un governo, o necessaria nella monarchia; se egli è vero che formi un potere intermedio che limiti gli eccessi dei due estremi, o non piuttosto formi un ceto che, schiavo di se stesso e di altrui, racchiude ogni circolazione di credito e di speranza in uno strettissimo cerchio, simile a quelle feconde ed amene isolette che spiccano negli arenosi e vasti deserti d’Arabia; e che quando sia vero che la disuguaglianza sia inevitabile, o utile nelle società, sia vero altresì ch’ella debba consistere piuttosto nei ceti che negl’individui; fermarsi in una parte piuttosto che circolare per tutto il corpo politico; perpetuarsi piuttosto che nascere e distruggersi incessantemente. Io mi ristringerò alle sole pene dovute a questo ceto, asserendo ch’esser debbono le medesime per il primo e per l’ultimo cittadino. Ogni distinzione, sia negli onori, sia nelle ricchezze, perchè sia legittima, suppone un’anteriore uguaglianza fondata sulle leggi, che considerano tutti i sudditi come egualmente dipendenti da esse. Si deve supporre che gli uomini che hanno rinunziato al loro naturale dispotismo, abbiano detto: Chi sarà più industrioso, abbia maggiori onori, e la fama di lui risplenda [p. 87 modifica]nei suoi successori; ma chi è più felice o più onorato, speri di più, ma non tema meno degli altri di violare que’ patti coi quali è sopra gli altri sollevato. Egli è vero che tali decreti non emanarono in una dieta del genere umano, ma tali decreti esistono negli immobili rapporti delle cose; non distruggono quei vantaggi che si suppongono prodotti dalla nobiltà, e ne impediscono gl’inconvenienti; rendono formidabili le leggi, chiudendo ogni strada alla impunità. A chi dicesse, che la medesima pena data al nobile ed al plebeo, non è realmente la stessa per la diversità della educazione, per l’infamia che spandesi su di una illustre famiglia, risponderei, che la sensibilità del reo non è la misura delle pene, ma il pubblico danno, tanto maggiore quanto è fatto da chi è più favorito; che l’uguaglianza delle pene non può essere che estrinseca, essendo realmente diversa in ciascun individuo; che l’infamia di una famiglia può esser tolta dal sovrano con dimostrazioni pubbliche di benevolenza all’innocente famiglia del reo. E chi non sa che le sensibili formalità tengono luogo di ragioni al credulo ed ammiratore popolo?