uomini mettono per lo più gli argini più sodi all’aperta tirannia, ma non veggono l’insetto impercettibile che li rode ed apre una tanto più sicura quanto più occulta strada al fiume inondatore. Quali saranno dunque le pene dovute ai delitti dei nobili, i privilegi dei quali formano gran parte delle leggi delle nazioni? Io qui non esaminerò se questa distinzione ereditaria tra nobili e plebei sia utile in un governo, o necessaria nella monarchia; se egli è vero che formi un potere intermedio che limiti gli eccessi dei due estremi, o non piuttosto formi un ceto che, schiavo di se stesso e di altrui, racchiude ogni circolazione di credito e di speranza in uno strettissimo cerchio, simile a quelle feconde ed amene isolette che spiccano negli arenosi e vasti deserti d’Arabia; e che quando sia vero che la disuguaglianza sia inevitabile, o utile nelle società, sia vero altresì ch’ella debba consistere piuttosto nei ceti che negl’individui; fermarsi in una parte piuttosto che circolare per tutto il corpo politico; perpetuarsi piuttosto che nascere e distruggersi incessantemente. Io mi ristringerò alle sole pene dovute a questo ceto, asserendo ch’esser debbono le medesime per il primo e per l’ultimo cittadino. Ogni distinzione, sia negli onori, sia nelle ricchezze, perchè sia legittima, suppone un’anteriore uguaglianza fondata sulle leggi, che considerano tutti i sudditi come egualmente dipendenti da esse. Si deve supporre che gli uomini che hanno rinunziato al loro naturale dispotismo, abbiano detto: Chi sarà più industrioso, abbia maggiori onori, e la fama di lui risplenda