De constantia iurisprudentis liber alter/Nota
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IV
IL «DE CONSTANTIA»
Sviluppate, o illusosi d’avere sviluppate, nel De uno le prime due parti della prolusione del 1719, il Vico s’accinse, nell’autunno del 1720, all’impresa piú ardua di svolgere la terza1, ossia, come s’è giá spiegato2, a dare un’ampia dimostrazione delle sue nuove teorie sull’origine, la circolaritá e la «costanza», ovvero perpetuitá e rigoroso carattere scientifico, tanto della filosofia quanto della filologia, o, ch’è il medesimo, a ridurre a un unico e perciò medesimo principio tutt’intera la realtá: tanto quella concettuale, ossia la vecchissima scienza dell’universale o del «vero»; quanto quella non concettuale, ossia la nuovissima scienza del particolare o del «certo» (giacché, in virtú del tentativo di convertirla in filosofia, la filologia diventava effettivamente, com’egli sin da allora prese a chiamarla, una «nova scientia»3).
Senonché altro sono i fini degli scrittori, poeti, filosofi e storici che siano; altro le poesie, filosofie e storie che a essi accade di scrivere in effetti. Nessuna maraviglia, pertanto, se dei tre aspetti del problema — origine, circolaritá e costanza — il Vico, postosi a tavolino, non desse quasi alcun rilievo al secondo, vale a dire alla teoria dei ricorsi, giunta a piena maturitá soltanto dieci anni dopo, nella seconda Scienza nuova, e, per certi punti, a dirittura nell’ultima redazione di questa, pubblicata postuma nel 1744. Nessuna meraviglia se, pur fermandosi a preferenza sulla «costanza», egli si sbrigasse, o credesse d’essersi sbrigato, della «costanza della filosofia» nei venti brevi capitoletti della prima parte, e che questi, oltre che riuscirgli, generalmente parlando, poco originali, trattino il piú delle volte questioni toto caelo diverse. Nessuna maraviglia infine, se, nel farsi a trattare amplissimamente della «costanza della filologia» nei trentasette ben piú estesi capitoli della seconda parte (taluno, anzi, cosí lungo, da dovere essere ripartito in parecchie «sectiones»), egli non si contentasse di formolare, dimostrare ed esemplificare la teoria filosofica della provvidenzialitá immanente della storia, o, come diremmo noi, della razionalitá del reale o della logica interna delle res gestae, nella quale appunto consiste la «costanza della filologia» o riduzione della storiografia a scienza filosofica, ma aggiungesse molte e molte altre e diverse cose. Tali, per ricordare solamente le piú importanti:
a) quella che il Vico chiamerá nelle due Scienze nuove la teoria della «storia ideale eterna» o del «corso uniforme delle nazioni», ossia un tentativo, non, a dir vero, filosofico, ma meramente empirico, di costruire, mercé la generalizzazione di fatti analoghi accaduti nelle singole storie dei singoli popoli, una scienza sociale, contesta di norme o leggi fisse, ricorrenti sempre e dovunque nello svolgimento dei fatti umani (o, com’egli dirá poi, nel «cammino che fanno le nazioni»);
b) l’altra teoria che, nelle due Scienze nuove, verrá chiamata degli «universali fantastici», ossia, al tempo medesimo — a causa d’una confusione tra l’uno e l’altro prodotto spirituale, della quale il Vico non riuscirá a liberarsi mai — una nuova dottrina filosofica del mito e una nuova dottrina filosofica della poesia, del linguaggio e, in genere, di qualsiasi forma espressiva: due dottrine ancora ben lontane dalla quasi compiuta perfezione a cui il Vico le condurrá nell’ultima Scienza nuova e, molto piú che in questa, serbanti scorie empiriche; ma che, non ostante ciò, assicurano al loro autore il merito d’aver fondato sin dal 1720 le scienze modernissime dell’Estetica, della Linguistica filosofica e della Filosofia del mito e della religione;
c) la teoria che il Vico chiamerá poi della «forza (o violenza) generosa fondatrice degli Stati», ossia un’indagine filosofica su quel momento ideale dell’attivitá pratica, per cui, con piena indiscriminazione dalle categorie del bene e del male, l’atto volitivo è vòlto a scopi meramente utilitari: indagine, anch’essa bisognosa dei ritocchi che il Vico v’introdurrá poi, ma che intanto lo indusse, sin dal De constantia, a porre, con ben altra sistematicitá che non i suoi predecessori Machiavelli, Grozio, Hobbes e Tomasio, le basi della Filosofia del diritto e della Filosofia della politica;
d) una serie di canoni ermeneutici — a dir vero ancora oscillanti e non perfettamente ispirati a quell’unicitá e sicurezza di criterio, che il Vico comincerá a raggiungere sin dalle Notae — per la ricostruzione della storia del tempo oscuro e favoloso o preistoria che si voglia dire; o, ch’è il medesimo, un geniale precorrimento dei principi fondamentali delle discipline che il secolo decimonono battezzerá da un lato coi nomi di Filologia comparata. Mitologia comparata e Diritto comparato, e, d’altro canto, con quelli di Critica delle fonti, Euristica e via enumerando;
e) una serie, molto piú lunga, di osservazioni storiche (dovute al saggio consiglio dato al Vico dal Ventura4) sulla cosí detta etá dell’oro (trattata, invece, quale «erramento ferino»); sulle origini delle religioni, della civiltá e del diritto; sulle origini della famiglia, della gens, della proprietá privata e, conseguentemente, del feudo; sulle origini della «cittá eroica», delle aristocrazie e, per ciò stesso, dello Stato; sulle origini del famulato (o schiavitú), delle clientele, delle plebi e delle democrazie; sugl’istituti giuridici, politici e sociali, sulle leggi, sulle letterature e sui fatti culminanti dell’Oriente, della Grecia e di Roma: considerazioni tutte, alle quali l’esser date, non a guisa di trattazione ordinata, anzi, nel maggior disordine, ora quasi esemplificazioni o corollari («consectanea») di principi filosofici, ora in forma di paralleli, e l’essere anch’esse, generalmente parlando, ancora immature, non tolgono punto il carattere di altro rivoluzionario precorrimento dei risultati a cui, in tutti codesti campi, è giunta e va giungendo la storiografia civile, politica, giuridica e letteraria del secolo decimonono e dei giorni nostri.
Quale titolo complessivo assegnare a questa che, di quante sistemazioni de omni scibili s’erano tentate sino allora, compresa quella baconiana, che il Vico tenne di continuo presente, era la piú gigantesca? Sorriderebbe congetturare che giá nel 1721 il filosofo napoletano vagheggiasse quello, di provenienza galileiana5, di Scienza nuova, che, come s’è veduto, fa pure una fugace e timida apparizione in un capitolo del De constantia philologiae. Senonché si conosce da documenti che a quel «titolo invidioso» il Vico non cominciò a pensare se non nel 1724, quand’era per condurre in porto la disgraziata Scienza nuova in forma negativa6. Invece il Vico medesimo confessa d’aver voluto primamente far proprio, con qualche adattamento, il titolo della dispersa enciclopedia varroniana, e chiamare, pertanto, l’intero secondo libro dell’opera sua De divinarum humanarumque rerum constantia: titolo tanto bello quanto appropriato, come quello che — dal momento che le «res divinae» sono la filosofia e le «res humanae» la filologia o storia — avrebbe conglobato i sottotitoli delle due parti onde quel libro si compone7. Senonché prevalsero poi in lui altre considerazioni.
E, ricordando, da un lato, le accuse di immodestia rivoltegli a proposito della prolusione del 17198, e illudendosi, d’altro canto, di dare, mercé un titolo giuridico, fisionomia prevalentemente giuridica a un’opera che doveva servirgli da «titolo di concorso» per una cattedra di diritto9, si risolse, sin da quando scriveva la Sinossi10, pel titolo improprissimo e, malgrado le sue dilucidazioni11, poco intelligibile, di De constantia iurisprudentis.
Bensí, appunto per prevenire il ritorno delle accuse suscitate cosí dalla prolusione come dalla Sinopsi e dal De uno, deliberò, quasi nell’atto che s’accinse al lavoro12, di aggiungervi in calce, illustrandole con annotazioni ora dilucidative ora cortesemente polemiche, alcune Clarissimorum virorum censurae extra ordinem13, le quali, a lavoro compiuto, si consolidarono in sette lettere, date nel maggior disordine cronologico: del cappellano maggiore e dotto romanista monsignor Diego Vincenzo de Vidania a esso Vico intorno all’escorso storico sui giureconsulti romani inserito sin dal 1708 nel De studiorum ratione14 (Barcellona, 16 aprile 1709); dell’insegnante di diritto Giovanni Chiaiese all’amico del Vico Nicola Geremia sull’intero Diritto universale (Antignano, presso Napoli, 13 agosto 1721); del ricordato padre Giacco al Vico intorno al De uno (Arienzo, 19 settembre 1720)15; del verseggiatore e compagno di scuola del Vico Aniello Spagnuolo al medesimo Vico circa il De constantia (Napoli, 15 agosto 1721); di Anton Maria Salvini ad Alessandro Rinuccini intorno al De uno (Firenze, 3 decembre 1720)16; del patrizio genovese Goffredo Filippi a Paolo Mattia Doria su un passo del medesimo De uno (Genova, 11 maggio 1721); del mentovato Luigi von Gemmingen a Tommaso Maria Alfani intorno alla Sinopsi (Roma, 31 agosto 1720)17.
Incerta la data dell’inizio della stampa, giacché, per le ragioni esposte nel paragrafo precedente, non può essere indicata sicuramente come tale quella del 18 febbraio 1721, giorno in cui il solito canonico Torno, piú disposto che mai ad avallare con la propria firma le «eresie» dell’amico filosofo, riceveva dalla curia arcivescovile l’incarico di rivedere il manoscritto18. È cosa invece ben certa che tra siffatto incarico e la stesura del parere (20 agosto) corsero anche questa volta ben sei mesi, e che nel parere stesso, con insistenza ancora maggiore che non in quello per il De uno — e anzi tirando a tal punto la corda da presentare a dirittura il De constantia quale lavoro prevalentemente di apologetica cattolica — il Torno (o, per lui, anche questa volta, il Vico) pose in rilievo che nel libro, perfettamente conforme «fidei christianaeve ethicae», l’autore, «vere pius, vere catholicus, ultra vel supra morem caeterorum de metaphysicis aut philologicis scribentium», ch’è come dire piú ancora di quanto sarebbe bastato per restare in pace con Santa Madre Chiesa, aveva disteso «omnes sui ingenii nervos ut uni catholicae religioni, quae suprema laus est, adlaboraret». Ch’è, a dir poco, una grossa iperbole, giacché, salvo cinque o sei digressioni, nelle quali, quasi excusationes non petitae, l’autore asserisce che dai suoi principi scaturiscono nuove e invitte prove «veritatis christianae religionis», salvo il taglio arbitrario tra ebrei e «genti» e salvo infine quei pochi luoghi nei quali viene sforzato questo o quel testo biblico per adattarlo ai principi informatori del libro, il Vico tende «omnes sui ingenti nervos» a dimostrare piuttosto la tesi, prettamente eterodossa, dell’origine, non soprannaturale, ma meramente umana del sentimento religioso.
Comunque, una ventina di giorni prima che il Torno esibisse all’autoritá ecclesiastica codeste non veritá o mezze veritá, l’autore aveva pur dovuto mettere in circolazione almeno due esemplari a stampa del volume, privo ancora, per altro, delle «censurae ex ordine» e di quelle «extra ordinem», facendone recapitare uno, per mezzo del Geremia, a Giovanni Chiaiese e donandone personalmente un altro ad Aniello Spagnuolo. Altrimente, non si riesce a spiegare come mai le lettere del Chiaiese del 13 agosto e dello Spagnuolo del 15 si trovino nelle Censurae extra ordinem, e nell’una il primo scriva d’aver pregato piú volte l’amico Geremia di fargli recapitare al piú presto il libro del Vico, per poterlo leggere a suo agio «aestivis hisce diebus» nella villeggiatura di Antignano, e d’aver finalmente avuto «cusum librum, adhuc typographica opera calentem»19, e il secondo dica ancora piú chiaramente nell’altra lettera d’aver ricevuto «a’ dí passati», e giá letto, «la seconda parte» dell’opera20. Certo è, a ogni modo, che il volume compiuto, ossia corredato delle Censurae ex ordine ed extra ordinem uscí dopo del 27 agosto, data dell’imprimatur del Collaterale21, e prima del 9 settembre, giorno in cui il Vico inviò uno dei primi esemplari compiuti al padre Giacco22.
Stampato nello stesso formato e coi medesimi caratteri del De uno e tirato anch’esso in un certo numero di esemplari in carta distinta, che recano nelle segnature dei primi tre fogli (pp. 1, 9 e 17) l’errore «Par. III»23, emendato, negli esemplari in carta comune, in «Par. II»24, esso consta di quattro pagine innumerate in principio, consacrate al frontespizio e ai pareri per la stampa, e di 260 pagine numerate, delle quali le pagine 1-25 contengono il De constantia philosophiae e le pagine 25-239 il De constantia philologiae. Seguono, alle pagine 240-1, due aggiunte al primo libro e due al secondo col titolo Omissa aliquot, e una correzione al De uno e due al De constantia recanti il titolo Aliquot emendata, e l’avvertenza finale: «Aliquos, si advertis, lapsus, aequanime lector, humanae naturae imbecillitati, literariorum autem typorum errores ipsorum fatum condona. Unum tamen maxime te monitum
velim: libro II, parte II, p. 24, versu ultimo25, ubi «et in falsum illud deistarum» [è da emendare] «et nos in falsum illud deistarum». S’aggiunga per ultimo che le pagine 242-260 sono consacrate alle Censurae extra ordinem, e che, a differenza che nel De uno, i richiami delle note a piè di pagina sono indicati, non con asterischi, bensí con numeri arabi, salvo appunto nelle Censurae, nelle quali il Vico s’avvale di lettere alfabetiche.
Malgrado le anzidette Censurae, le accoglienze che, generalmente parlando, il De constantia ebbe in Napoli non peccarono al certo per eccesso di entusiasmo. Senza dubbio, come s’è visto26, il Vico scrive nell’Autobiografia che, appunto perché accompagnato da quelle Censurae, il De constantia tolse agli emuli dell’autore la voglia di persistere nei loro giudizi svantaggiosi della Sinopsi.
Senonché l’affermazione è da interpretare nel significato (ed è interpretazione autentica, esibita altrove dallo stesso Vico27 che quegl’«ingegni corti o limitati» doveron pure, di fronte al De constantia, che manteneva tanto piú che l’autore non avesse promesso, cessare dal «dubbitare, e la piú parte tenere per certissimo», che «a mezzo il corso», gli mancasse la possa di ricondurre res divinae e res humanae, filosofia e storia, sotto un unico e medesimo principio. Per contrario, circa le altre e ben altrimente fondate accuse di oscurezza e d’irreligiositá, formulate giá contro il De uno28, esse, sia pure con acrimonia alquanto minore, vennero ripetute contro il De constantia. Pietro Metastasio, che viveva allora negli stessi ambienti letterari napoletani frequentati dal Vico, e che pare bazzicasse anche in casa di lui (ove, al dir di qualche biografo, avrebbe avuto anni addietro un amoretto da adolescente con una figliuola del filosofo29) e che, a ogni modo, proprio nel 172i gli forni l’epitalamio «Su le floride sponde Del placido Sebeto» per la miscellanea pubblicata in occasione delle nozze di Giambattista Filomarino30; il Metastasio dunque, nello scrivere a Francesco de Aguirre (16 decembre 1721), tributava, sí, per suo conto, al De constantia le lodi generiche di «opera d’una pura lingua latina, di somma erudizione e d’un acume metafisico», ma soggiungeva che, «comunemente», il libro, e proprio a causa del tentativo «di ridurre tutte le scienze e nozioni dottrinali, nonché i commerci e le leggi, ad un solo principio», veniva «ripreso per oscuretto»31. E, d’altra parte, il Vico medesimo accenna implicitamente a un ripetersi delle accuse d’irreligione, allorché, il 27 ottobre di quell’anno, scriveva al Giacco32 che i suoi malevoli, nel trovare tra le Censurae extra ordinem quella lettera giacchiana del 19 settembre 1720, ritenuta dai suoi benevoli «scudo» o malleveria dell’ortodossia del De uno33, avevano sparso per la cittá che il Ciacco era restato malcontento della diffusione di quella sua epistuncula: quando, a dir vero, sembra che il Vico, prima di darla al pubblico, ne chiedesse facoltá al buon frate34, il quale, a ogni modo, letterato oltre che sant’uomo e affetto pertanto anche lui da quella vanitá letteraria ch’è peccato comune a quanti sappiano o credano di saper porre il nero sul bianco, restò piú che soddisfatto di quella pubblicazione35.
Salvo la giá mentovata recensione del Lederc36, mancano altri documenti della fortuna o sfortuna del De constantia lungo tutto il resto del Settecento. Sicché, compiendo un gran salto d’un secolo, non è da aggiungere altro che a esso — pur tanto superiore al De uno e mostrante, anche nei punti che ha comune con quello, un notevole progresso di pensiero — toccò nell’Ottocento sorte meno propizia. Oltre i pochi estratti datine in francese dal Michelet37, non venne tradotto integralmente se non una volta sola; e poiché quell’unica traduzione, compiuta in una lingua che vorrebbe essere italiana, ed è in realtá ostrogota, fu dovuta all’avvocato Francesco Saverio Pomodoro38, che pare si proponesse di rendere al Vico gli stessi cattivi servigi che il suo concittadino e contemporaneo Alessandro Novelli allo Hegel39, si può immaginare di quali insigni tradimenti del pensiero vichiano sia materiata. E, quanto al testo latino, la ristampa del medesimo Pomodoro, che, prima della presente riedizione, era l’ultima, era stata preceduta appena da altre quattro, inserite rispettivamente nella raccolta giá citata del Predari, nelle due del Ferrari e in quella dello Iovene40.
Note
- ↑ Autobiografia, p. 42.
- ↑ Si veda sopra, p. 764.
- ↑ Cfr. il titolo del primo capitolo del De constantia philologiae.
- ↑ Si veda sopra p. 766.
- ↑ Ricordare i Discorsi e dimostrazioni intorno a due nuove scienze del 1638.
- ↑ Cfr. nella presente raccolta delle Opere, vol. III, p. 326.
- ↑ Presente edizione, p. 615.
- ↑ Si veda sopra p. 764.
- ↑ Mi si consenta di rimandare, per questo punto, a un mio articolo (Vico e la genesi della prima Scienza nuova) di prossima pubblicazione nella Nuova Antologia.
- ↑ Presente edizione, p. 3.
- ↑ Si veda sopra, p. 615.
- ↑ A qualcuna di quelle Censurae si rimanda giá nel De constantia.
- ↑ Perché «extra ordinem? — «Nam — spiega il Vico in una nota premessa a quelle Censurae — principio librorum I et II prostans censurae ex ordine (cioè i pareri ufficiali per la stampa) a doctissimis usquequaque utriusque iuris doctoribus Iulio Torno, Ecclesiae napolitano,e theologo eximio, et Nicolao Galitia, in regia Universitale neapolitana primario iuris pontifica antecessore».
- ↑ Presente edizione delle Opere, I, p. 100 sgg.
- ↑ Si veda sopra, p. 775.
- ↑ Si veda sopra, p. 769.
- ↑ Ivi.
- ↑ Presente edizione, p. 587.
- ↑ Carteggio, ed. cit., p. 163.
- ↑ Ivi, p. 160.
- ↑ Si veda sopra, p. 589.
- ↑ Carteggio, ed. cit., p. 170.
- ↑ Per lo meno quest’errore si riscontra nei due esemplari postillati delle Biblioteche Nazionali di Vienna e di Napoli, tutti due in carta distinta, e nei quali, anche a siffatto riguardo, il Vico introdusse una correzione a penna.
- ↑ Da che l’ovvia conseguenza che il tiraggio degli esemplari in carta distinta precedé quello degli esemplari in carta comune.
- ↑ Presente ediz., p. 303 righe 12-3.
- ↑ Cfr. sopra, p. 769.
- ↑ Carteggio, ed. cit, p. 170.
- ↑ Si veda sopra, p. 777.
- ↑ Vico, Autobiografia, pp. 116-7.
- ↑ Cfr. Vico, Poesie varie, p. 369.
- ↑ Cfr. Vico, Carteggio, p. 303.
- ↑ Ivi, pp. 173-4.
- ↑ Si veda sopra, p. 777.
- ↑ Vico, Carteggio, p. 174: «... io che, non per presonzione o congettura, ma perché conosceva il vostro petto veracissimo e la vostra anima generosa, come per espressa ordinazion vostra» ho pubblicato «la vostra prima onorevolissima lettera». Parole che, per il valore ambiguo di quel «come», si possono interpretare tanto nel significato che il Giacco avesse dato il permesso di pubblicazione, quanto nell’altro che il Vico avesse avuto fondate ragioni di ritenerlo «come» prestato.
- ↑ Vedere l’altra lettera del Giacco del 3 ottobre 1721 (Carteggio, pp. 172-3): «... vi rendo... grazie infinite dell’onore segnalatissimo che vi è piaciuto farmi del palesare al publico» ecc. ecc.
- ↑ Si veda sopra, p. 776.
- ↑ Si veda sopra, p. 779.
- ↑ Insieme col testo latino è data nel volume III della sua ristampa, molto peggiorata, dell’edizione Ferrari.
- ↑ Cfr. Croce, introduzione alla sua traduzione dell’Enciclopedia hegeliana (Bari, Laterza, 1907), p. xii sgg.
- ↑ Cfr. il precedente paragrafo di questa Nota.