Dalle dita al calcolatore/VIII/4
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4. La sete di sapere
I primi decenni dell’Islam si caratterizzano soprattutto per la sete di bottino. Ma quando si tratta di gestire l’amministrazione del vastissimo impero, gli Arabi si accorgono che le regole della vita tribale non sono sufficienti, e si avvalgono allora di funzionari cristiani, persiani, ecc., profondi conoscitori di sistemi amministrativi collaudati come quello greco-bizantino e quello persiano dei Sassanidi. In effetti, gli atti pubblici dell’impero continuano ad essere redatti in greco e in persiano fino agli inizi dell’VIII secolo.
Nel frattempo, schiere di studiosi provvedono a dare regole certe alla lingua araba, redigendo grammatiche e dizionari, e adeguano la scrittura, che assume due forme: il Cufico (usato nei testi sacri e nelle iscrizioni monumentali) e il Naskhi, più scorrevole (per tutti gli altri scritti e la corrispondenza). A questo punto l’arabo diviene la lingua ufficiale e il veicolo più potente per la diffusione della cultura in tutto l’impero.
Agli inizi, in campo culturale vige però il vuoto, o quasi. Alle scuole d’élite si richiede che insegnino a leggere, a scrivere e, massimo dello snobismo, a nuotare. Si fa sentire l’esigenza di conoscere le maggiori opere dell’antichità, ma esse sono scritte in greco. Pare che il lavoro di traduzione comporti un duplice intervento: i dotti ebrei o cristiani eseguono la traduzione dal greco all’aramaico, poi altri realizzano la versione dall’aramaico in arabo. Le prime traduzioni si hanno intorno al 740 e riguardano gli scritti di Ippocrate e di Galeno. L’opera di traduzione diviene sistematica dopo la fondazione della Casa della Sapienza, abbondantemente finanziata dal Califfo. In tal modo, migliaia di testi greci sono tradotti in arabo. Tradotti a loro volta in latino, pongono le premesse per lo sviluppo della cultura europea. Ma le vie della cultura sono bizzarre: per esempio, l’Almagesto di Tolomeo è tradotto in arabo nel 775 e dall’arabo in latino solo nel 1175, a Toledo, per opera di Gerardo da Cremona.
I contatti dell’Europa col mondo arabo seguono molteplici vie, oltre quelle delle incursioni o della stabile occupazione. Sono noti gli amichevoli rapporti diplomatici fra Carlo Magno e il Califfo Harun ar-Rashid: l’analfabetismo del primo e la vasta cultura del secondo la dicono lunga sul divario fra i due imperi. Un altro momento di “incontro” fra i due mondi è rappresentato dalle Crociate. Nelle cronache arabe gli Europei sono descritti come esseri rozzi, o addirittura sciocchi. Le solite “voci” insistono nell’insinuare che molti Franchi, trovando la moglie a letto con un altro, neanche si arrabbiano.
Il commercio offre certamente molte occasioni di scambi culturali. Le maggiori città marinare italiane, ad esempio, detengono il monopolio nei rapporti commerciali con i principali porti arabi e bizantini. In ogni porto dispongono di fondachi (depositi) gestiti da addetti che vi risiedono a lungo. Indubbiamente, insieme alle merci viaggiano le persone e le idee. Avicenna, fanciullo, dispone dei migliori maestri in ogni disciplina, ma preferisce imparare l’aritmetica andando da un mercante che usa i metodi indiani. Il padre di Leonardo Pisano o Fibonacci dirige l’ufficio doganale di Bugia (Algeria) per conto dell’Ordine dei mercanti pisani. Conduce il figlio con sé e gli dà un maestro arabo che gli insegna i metodi indiani. Leonardo, a sua volta, viaggiando per tutto il Mediterraneo come mercante, approfondisce la matematica araba. Dopo di che “tornoe a Pisa e rechò i numeri arabichi e l’aritmetica e ne compose un libro” (16a): il Liber Abbaci (1202). Quest’opera inizia con la presentazione delle nove figure indiane .987654321. e del segno 0, che gli Arabi chiamano zephirum, quindi passa ad illustrare argomenti di algebra che tengono banco per almeno tre secoli.
Nel 773 giunge a Baghdad un dotto indiano esperto in astronomia e in aritmetica, profondo conoscitore del Siddhanta e di altri testi. La traduzione di questi libri e dell’Almagesto di Tolomeo stimola lo sviluppo dell’astronomia araba, dalla quale abbiamo ereditato molti termini specifici della disciplina. Mohammed ibn Musa al-Khuwarizmi (780-850), cioè “Maometto figlio di Mosè nato in Coresmia”, astronomo e matematico, scrive due trattati attraverso i quali la matematica “indiana” si diffonde nel mondo arabo. Uno è pervenuto in traduzione latina col titolo De numero indorum; l’altro è intitolato Hisab al-giabr ua’l-muqabala (Calcolo dell’integrazione e dell’equazione) ed è tradotto col titolo Liber Maumeti filii Moysi Alchoarismi de algebra et almucabala. Il nome latinizzato del luogo d’origine del matematico arabo indicherà per molti secoli la numerazione indiana e i relativi metodi di calcolo: guarismi, algorismi o algoritmi.