Dal profondo/La martire
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LA MARTIRE.
Per Maria Spiridònova.
Maria Spiridònova, sono
io. — Taci. — Nessuno m’ha scôrta.
Strisciai come un serpe nell’andito,
richiusi in silenzio la porta.
Io reco il dolore
del mondo al tuo nudo abbandono:
oh, non mi vedranno i Cosacchi
in ginocchio presso il tuo cuore.
Io venni nel nome di ognuna
che canti con trepida voce,
segnando sul figlio una croce,
la sua nenia sovra una cuna.
Maria Spiridònova, è oscura
la cella ove giaci; e tu aspetto
umano più quasi non hai,
distesa sul fetido letto.
Lo so, ch’eri bionda
al par della messe matura;
ma t’hanno divelti i capelli
a ciocche, ed a guisa di fionda
lanciato il bel corpo a muraglie
di pietra; e accecato un degli occhi,
e pesti e spezzati i ginocchi,
e sovra la carne tua pura,
suggello d’infamia, lo stigma
impresser di ferrei staffili,
di punte infocate, di sputi
villani, di baci più vili
dei colpi.... — e tu appari
serena, o terribile enigma
femineo: — più calma dei morti
di Kàrian, nuotanti fra mari
di sangue: di Deef sfracellato,
dei mille che tu hai vendicato,
o pia dal dolcissimo volto.
.... Maria Spiridònova, pensi
talvolta, nel cuore, alla queta
tua casa, alle chiome tue d’oro
disciolte sul collo?... — Era lieta
l’infanzia. Corolle
azzurre, i tuoi occhi fra immensi
giardini fiorivano. E tu
cucivi, sognando, se molle
venìa Primavera in leggiadre
sue vesti a ingemmar prati e dumi,
e a sciogliere i ghiacci sui fiumi.
Cucivi, vicino a tua madre....
Or piange con urla errabonde
la madre. — Tu no. — Tu atterravi
chi Patria colpiva. — E fu giusto. —
C’è Spartaco in terra di schiavi;
e dove si scaglia
ferocia, ferocia risponde.
O bionda omicida, tu sei
la Russia discesa in battaglia,
coperta di neve, grondante
di sangue, sfregiata dal morso
del knut, con indomito corso
dall’ombra dell’evo balzante.
La Russia tu sei di Sofia
Perowska, di Bèlkin, di Gorki,
che rompe i suoi lacci coi denti,
e va, croce in mano, alle forche:
che sbuca con neri
vessilli da la stamperia
segreta, dall’isba selvaggia,
dall’aule, dai bassi cantieri
sul Volga, dal fumo dei roghi
accesi su la steppa madre
un giorno — e cantavan le squadre
le vittorie de i Zaporoghi.
.... Silenzio. — Ora dormi, con puro
sorriso. Non temi più nulla.
Il letto ove stai, muta e rigida,
somiglia una bara o una culla.
Qualche stilla diaccia
risgorga, insistente, dal muro.
Aràcnidi lente traversano
la vôlta. A un pertugio s’affaccia
lo sbirro dal volto camuso,
e ghigna, battendo il fucile
all’uscio. — Il tuo labbro sottile
all’ansia d’un sogno è dischiuso.
E i muri si sfasciano, senza
romore. La cella si fa
deserto ai confini di Patria:
enorme una folla vi sta.
Ti chiamano, i tuoi
compagni. In esilio, in demenza,
in ceppi, in agguato, col cappio
al collo, ti arridono: A noi!... —
.... Qual dunque, o martirio, è la gioja
che doni, perchè l’uomo uccida
per essere ucciso, e sorrida
ai colpi, ed in estasi muoja?...