Dal mio verziere/Il conte zio
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Il conte zio.1
L’invito è cortese, la questione attraente e tentatrice; ma, consapevole della mia pochezza, scendo in lizza timidamente, nascondendomi il più che è possibile all’ombra di quel gran nome, che i vecchi adorano e che tutti i giovani — manzoniani o no — dovrebbero inchinare reverenti.
Intanto rileggendo attentamente quel bellissimo capitolo decimonono dei Promessi Sposi, in cui le qualità più simpatiche dell’autore rifulgono di viva luce, si è tratti subito ad ammirare la magistrale sapienza del Manzoni nel dialogo, tanto per la fine ed ingegnosa condotta alla conclusione, come per la naturalezza inimitabile. Quelle esitazioni, quelle frasi lasciate a mezzo, e non solamente in bocca al Conte Zio, per cui sono una caratteristica, ma pur anche in bocca del padre provinciale, è arte finissima per indurre il lettore a credersi veramente spettatore invisibile dei due interlocutori, che parlano con le esitazioni vere di chi cerca la parola esatta o l’immagine appropriata nel discorso.
Ed ora entrando in materia, per esporre coraggiosamente il mio parere, soggiungo che non mi pare di riscontrar contradizione alcuna fra le linee generali del carattere del Conte Zio e il suo modo di trattare la faccenda col molto reverendo padre: giacchè se il Conte ci viene raffigurato dall’autore come un barattolo di farmacia vuoto di dentro, sappiamo pure che aveva su certe parole arabe per mantenere il credito alla bottega; e il credito non l’avrebbe mantenuto, se invece di usare di quelle «spalmature di vernice che la politica a più mani aveva messe sopra il suo viso,» fosse entrato impazientito a piè pari nell’argomento, narrando brutalmente al religioso la storiella scandalosa di fra Cristoforo: tanto più che da certe reticenze del padre provinciale, da certi tentativi di difesa, egli ha dovuto intendere facilmente che non era quello il bandolo, e che la stima in cui si teneva o a torto o a ragione fra Cristoforo, avrebbe forse reso inefficace quell’accusa troppo grave facendo gridare alla calunnia.
Quindi bisognava che il magnifico signore s’attenesse al verosimile per non urtar troppo il molto reverendo padre, tanto più che fra i due (parla il Manzoni) «passava un’antica conoscenza; s’erano veduti di rado, ma ogni volta con gran dimostrazioni d’amicizia e con proferte sperticate di servigi:» un’amicizia insomma piena di riguardi e di cerimonie.
L’offesa recata a fra Cristoforo con quell’accusa era un’offesa all’abito che portava l’amico molto reverendo, il quale stava appunto cantando di quell’abito la gloria e i miracoli. Così la confidenza di un semplice urto fra il padre Cristoforo e don Rodrigo, condite con le solite reticenze di quel « parlare ambiguo, quel tacere significativo, quello spingere d’occhi che esprimeva non posso parlare,» era proprio quello che ci voleva in quel momento per conseguire il suo intento senza metterlo nell’imbarazzo di parlar chiaro — cosa, che con quel suo metodo doveva riuscirgli abbastanza difficile. Insomma, fece nè più nè meno del solito, e questo mi pare che vada d’accordo con le linee generali: la mancanza di coltura, di dottrina, d’ingegno, la sua sufficienza boriosa con cui si convinceva certo che se un individuo qualunque dava noia alla sua casa, quell’individuo era bell’e spacciato — si scacciava come una mosca importuna — motivo di sfratto che doveva solleticare la sua vanità più del racconto esplicito dell’intrigo di fra Cristoforo.
Inoltre, essendosi Attilio scaltramente indugiato sulla necessità di garantire l’onore del casato dalle ironie di quel frate che «trova maggior gusto a farla vedere a Rodrigo, appunto perchè questi ha un protettore naturale di tanta autorità come Vossignoria (il Conte Zio) e che egli se ne ride dei grandi e dei politici, e che il cordone di San Francesco tien legate anche le spade...», la boria spagnolesca del Conte Zio dovè sentirsi punta tanto sul vivo da queste parole ardimentose riferitegli, da fargli mettere subito in seconda riga la storiella scandalosa, salvo poi a servirsene come ausiliario, se il padre avesse negato o promesso vagamente ciò ch’egli chiedeva.
Ed ora mi parrebbe che si possa continuare a giudicare il Conte Zio per quello che è sempre stato — uno cioè che ha solamente la verniciatura del grand’uomo — per il barattolo vuoto, per lo spaccone che crede di acquistar credito — e lo acquista in quel pubblico! — raccontando d’essersi sentito domandare, in presenza di mezza la Corte, come gli piacesse Madrid: di aver visto da un posto distinto le caccie del toro, e di essersi udito dire dal conte duca, a quattr’occhi, nel vano di una finestra, che il duomo di Milano era il tempio più grande che fosse nei dominii del re. L’omissione di un accenno a Lucia nel dialogo col provinciale non è avvedutezza, ma imbarazzo complimentoso, boria e un pizzico di quella diplomazia che l’autore gli dona, e che non si può a meno di concedergli in una posizione come la sua, che poco o tanto della diplomazia ne doveva insegnare.
- ↑ Scritto per una specie d’inchiesta aperta dal Fanfulla della Domenica su una pretesa contradizione riscontrata nel carattere del «Conte zio» dei Promessi Sposi.
N. d. A.