Cuore infermo/Parte Seconda/I
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I.
— Sei tu là, Beatrice? — chiese egli.
— Sono qui — rispose ella dal suo posto, presso il caminetto.
— Come, non ti hanno portato ancora i lumi? — soggiunse egli, avanzandosi, incerto nell’andare.
— Non so, non mi curai di chiamare.
— Temettero forse disturbarti — disse Marcello.
Egli aveva incontrato presso il caminetto una poltroncina molto bassa e l’aveva rivolta, per sedersi, verso il punto probabile dove era sua moglie. Cercava abituarsi
a quel buio improvviso, egli che veniva dalla strada illuminata.
— Ti disturbo io forse? — mormorò poi con una dolcezza di accento, che faceva rassomigliare le sue parole ad un soffio caldo e carezzevole.
— Tu non mi disturbi mai, Marcello — rispose la moglie, con l’armonia monotona della sua voce.
Egli represse un piccolo movimento nervoso delle mani. Ora, con gli occhi che si erano poco a poco assuefatti all’oscurità, Marcello distingueva Beatrice. Sedeva molto vicino a lui, sdraiata in una poltroncina, col viso rivolto al fuoco; la veste da camera bigiognola, col goletto ed i polsini di pelliccia nera, pareva nera anch’essa; sull’alare di bronzo, per la gonna un po’ sollevata e tirata indietro, si vedevano i piedini lunghetti, inarcati, calzati di pelle marrone, con un punto dorato che vi accendeva il riflesso del fuoco. Fuori, una pioggerella fitta e fredda di gennaio batteva sui vetri, ma giungeva come un lieve mormorio, attenuato dalle doppie imposte; il rapido rotolio delle carrozze, il tran-tran dei pesanti omnibus si smorzava sull’asfalto bagnato della via, come sopra un tappeto di lana. Quella stanzuccia piccina, bruna, calda, silenziosa, pareva a Marcello l’angolo recondito e solitario del mondo, che egli aveva desiderato abitare con Beatrice: il vecchio angolo che hanno sempre desiderato gli innamorati, dove non giunge l’eco triviale e grossolana della folla, dove le pareti hanno la mollezza del nido e l’aria è satura di amore, dove è lecito amarsi bene, amarsi sempre, in una continuità infinita che annulla il tempo e lo spazio. Quell’ambiente lo dominava, lo vinceva con la sua influenza moderatrice, discioglieva quell’apparenza rigidamente compita che Marcello sovrapponeva al suo carattere appassionato ed eccessivo. Senza obblighi cerimoniosi, egli si sentiva tutto intimo con sua moglie, in una confidenza soavissima, ridiventato buono come un fanciullo, con una tenerezza grave da uomo innamorato.
— A che pensavi qui, sola sola, al buio, Beatrice?
— A nulla pensavo.
— Come a nulla?
— Voglio dire, a nulla che possa interessarti. Pensieri soliti.
— Quanto tu pensi m’interessa, Beatrice.
Ella non rispose; egli scherzava macchinalmente con la frangia del bracciale della poltroncina dove ella sedeva. Due volte con le dita le aveva sfiorato il braccio che vi si appoggiava. Ma non poteva raccapezzarsi dove fosse la mano; forse aveva dovuto toccare il gomito piegato.
— Guardavi tu il fuoco? — diss’egli poi.
— Io?... Sì.
— Certo, tu devi amarlo. Ci vedi tu forse qualche visione bella e fulgida?
— Non so. A me nulla appare nel fuoco.
— È strano, è strano — soggiunse Marcello sovrappensieri, distratto in una meditazione che rallentava le sue parole — ma noi altri uomini del Mezzogiorno non conosciamo i sogni che ci crea il fuoco. I caminetti dei nostri palazzi rimangono spenti, nascosti da un ricco ed inutile parafuoco, e nell’inverno, da essi, invece del calore, penetra nelle nostre sale un vento sciroccale. Noi, quando abbiamo freddo, usciamo di casa, ci riscaldiamo al sole, nella luce, nell’aria libera, dove non si sogna, ma si vive. Così non possiamo conoscere le visioni del fuoco.
Beatrice continuava a non rispondergli. Pure Marcello era tanto compreso di lei, che per rimbalzo gli pareva ella dovesse ascoltarlo attentamente, seguendolo, anzi precorrendolo nei lenti meandri del suo pensiero.
— Sono stato, una volta, otto mesi a Londra — rispose egli, abbandonandosi poco a poco al delicato piacere dell’espansione. — Non già che mi garbasse molto la città: anzi, a volte, era pesante ed antipatica; ma mi divertivo a passar le ore all’angolo del caminetto. Le bizzarre figurine che si allungano, si contorcono, si assottigliano nella fiammata delle vecchie legna! Sembrano fanciulle singolari, dalle forme straordinarie, vestite di fiamma, dalla vita breve e ardente, mezzo donne, mezzo salamandre, sirene del fuoco. L’orecchio nota i misteriosi metri del focolare: lo scoppiettìo vivace, seguìto, continuo delle buone legna che si accendono, il piccolo fischio dell’aria nascosta che si sprigiona dalle loro dure fibre, il borbottìo dell’umidità che gorgoglia e bolle al capo ancora verde, il rumore dei tizzi che si spostano, la catasta che si abbatte con tonfo sordo. Sul tizzo acceso le scintille si schiudono come un fiorellino, brillano per un solo istante, si appannano sotto un velo finissimo di cenere; spesso ne partono centinaia in tutte le direzioni, lucide, leggiere, evanescenti. Il fuoco si consuma lento lento nel suo calore; chi gli siede accanto e lo guarda fisamente, ed evoca in esso le fugaci apparizioni della sua fantasia, si profonda tanto in questa contemplazione che dimentica totalmente il suo corpo e non sente di esso che le palpebre appesantite come piombo. Se chiude gli occhi, la medesima visione infiammata gli scherza e gli saltella dinanzi; le piccole scintille si staccano, volando, per morire nel loro volo; sul loro fondo nero degli occhi chiusi si allungano, si abbreviano, si assottigliano linguette di fuoco. Poi la visione scompare, un torpore morboso lo invade, lo abbatte — egli dorme affannosamente e nel sonno vede ancora qualche cosa di rosso vivo che fa palpitare e fluttuare tutto il bigio orizzonte del suo sogno...
E la sua voce si abbassò sino ad un mormorìo indistinto, quasi si addormisse con le parole, cullata dallo stesso loro suono, cullata dalle idee che esprimevano. Ma per poco: l’impressione si allontanò anch’essa, bruscamente scacciata dall’ostinato silenzio di Beatrice.
— Beatrice?
— Marcello?
— Tu non mi ascolti.
— Al contrario, io ti ascolto con molta attenzione.
— Di certo, tu non intendi queste fantasticherie? — domandò lui, non senza un’ombra d’ironia.
— Di certo, Marcello — rispose ella con la massima semplicità.
Di nuovo egli represse un moto di stizza. Ora non voleva dire più niente. Il filo era rotto, i ricordi erano svaniti, il suono della voce li aveva dispersi. Gli sembrava di starsene solo solo, in una stanza, nel buio, a vaneggiare di favole sciocche e ridicole. Era solo lì dentro, poichè nessuno poteva comprenderlo, nè rispondergli. Quale follia a discorrere così, ad alta voce!
Beatrice si mosse un momento sulla poltroncina che scricchiolò nella sua stoffa azzurra. Marcello trasalì: sua moglie era sempre là, accanto a lui, ella più in alto, lui più in basso: lui che tornava a scherzare con la frangia del bracciuolo, una frangia serica, ritorta, che gli si attaccava alle dita con le asperità della seta sfilacciata. E la mano di Beatrice dove era? Aveva ritrovato il braccio molto stretto nella manica dell’abito, ma quasi quasi non osava inoltrarsi, rattenuto da non so quale timore stupido; intanto era agitato da un desiderio fitto, una voglia irragionevole da bambino, di avere quella mano; la voleva, ma non voleva cercarla. D’un tratto si allungò nella sua seggiola con un sospiro di soddisfazione; nel buio aveva dovuto sorridere. Era contento: non si sa come, aveva trovato la mano di sua moglie. Una mano morbida, dalla epidermide rasata, non troppo calda, non troppo fredda, con un tepore diffuso ed eguale; una mano che portava nei suoi pori la sottile emanazione di vita fresca e giovane di una bella donna. Il mignolo, l’anulare e il medio erano pieni di anelli gemmati, come vuole la moda, una moda che dà alla mano della donna ricca qualche cosa di folgorante, di alato, ma che le impedisce di stringere quella dell’amante o dell’amico. Per poco Marcello si dilettò nella semplice consolazione di tenere placidamente quella mano nella sua; indi, per scuoterne l’inerzia, si mise a giocherellare intorno agli anelli, contandoli mentalmente, paragonando la durezza delle pietre preziose alla morbidezza della mano, la freddezza liscia delle fascette d’oro al calore temperato dell’epidermide. E con un capriccetto nuovo da innamorato, ebbe la folle idea di posare dei piccoli baci, proprio lì sulle dita affusolate, fra gl’interstizii degli anelli, staccandoli un poco con le labbra una pioggettina di baci piccini, quieti e fini fini. La bella mano non trasaliva, non tremava e neppure si sottraeva a quei baci; si abbandonava, si lasciava andare, si concedeva graziosamente, ma i baci non l’accaloravano, nè le davano un fremito.
— Tu sorridi di me, nevvero, Beatrice? — le chiese egli, dolente, ansioso della risposta.
— Ti assicuro che non sorrido, Marcello.
— Ed allora tu devi essere triste. Stolto che fui a non accorgermene! Tu sei triste, sicuro. Ti ho lasciata per troppo tempo sola, quest’oggi? Ti rincresce forse questo clima di Parigi, così diverso dal nostro? Il cielo bigio, il fango odioso della via, la luce sfacciata del gas ti avranno data la malinconia. Oppure avrai ricevuta qualche brutta lettera da Napoli? Queste stupide lettere che giungono tanto male a proposito! Vuoi tu che andiamo a Nizza, a Monaco, dove è sempre gaia la primavera? Dimmi, cara, dimmelo quello che vuoi, ma non essere triste.
E la pregava a voce sommessa, stringendole le mani, con tutta la ricca effusione di un cuore amante.
— Ma no; io non sono triste. Tu sogni, Marcello. So che oggi hai dovuto uscire e trattenerti a lungo fuori per affari. Il clima non m’incresce affatto: è l’opposto di Napoli, è vero; pure Parigi mi piace quanto Napoli. Se ti ricordi, mio padre mi ha scritto ieri l’altro, ti ho letta la sua lettera: sta bene, mi narra molte storielle delle nostre amiche e dei nostri amici. È inutile, credo, andar via di qui prima del tempo stabilito. Attendiamo anche Fanny Aldemoresco col marito; han promesso di venire. Qui si sta benino. Se avessi un desiderio, te lo direi subito; ma non ne ho.
— Dovresti dirmelo, cara — rispose Marcello, dopo un momento, cercando distrarsi dalla dura impressione di quel discorsetto pacato e misurato — non mi fare il torto di celarmi alcuna cosa. È male quando un segreto, foss’anche piccolissimo, divide due persone che s’amano; ha infinite dolcezze la mutua confidenza. Cerca conoscerle, Beatrice, e le apprezzerai.
— Io lo spero.
Parlavano a voce bassa, Marcello col volto sollevato verso di lei, molto ravvicinati; ella si teneva immobile senza parer di sentire la mano del marito che ora strisciava sulla spalla, ora scherzava con la trina del colletto, ora le carezzava i capelli.
— Andiamo questa sera al ballo dell’ambasciata italiana? — domandò Marcello a un tratto.
— Dovremmo andarci; ma per me fo quello che ti piace.
— Worth ti ha mandato l’abito?
— Sì, oggi alle quattro.
— È bello?
— Abbastanza. È di broccato verde-pallido, con roselline bianche ed alighe.
— Ti starà stupendamente... Peccato! Ascolta, Beatrice, vuoi che ti dica una cosa?
— Dimmela pure.
— Quel ballo sarà molto noioso: un ballo come ne abbiamo visti tre o quattrocento in vita nostra, come saremo obbligati a vederne un altro migliaio. Colori oltraggiosi di abiti impossibili, molti brillanti conosciuti e risaputi, molte malinconiche marsine, molte inutili decorazioni. Fuori piove. È uggiosa la sera. I ballerini ti circonderanno, mi ti porteranno via ogni momento, ti faranno stancare nei loro lunghissimi giri di valtzer e io dovrò, per fare qualche cosa, andarmene a giuocare coi miei amici della colonia napoletana. Ritorneremo a casa alle cinque del mattino, stanchi, disfatti, ebbri di noia fino agli occhi. Vedi, qui invece non giunge il triste rumore della pioggia. Tu stai ben calda nelle tue pellicce; pensa, là dovresti andare scollata, con un brivido di freddo per le tue belle spalle nude. Qui siamo noi due, soli, senza noie, senza fastidi. Restiamoci, cara. Restiamo insieme, vicini, qui dove si sta tanto bene. Ti narrerò qualcun’altra delle mie stranezze, per farti sembrare meno lunga l’ora: o se vuoi essermi affettuosa, mi racconterai qualche cosa di te. Oppure... se non ti garba l’ascoltare ed il discorrere, resteremo zitti zitti... senza dire più nulla...
E se la teneva abbracciata, stretta stretta, come il più prezioso dei tesori, con la testa appoggiata alla spalla di lei, balbettandole le ultime parole nel collo. Ella non diceva nulla; egli le mormorò, più che le disse:
— Beatrice, Beatrice, è vero che tu mi ami? Un bacio me lo dai?
Ella si chinò un momento e gli diede un bacio con la grazia leggiadra e fredda che metteva in tutti i suoi movimenti. E rialzandosi, senza che la minima emozione la turbasse, con la sua bella calma, gli domandò:
— Si decide dunque qualche cosa pel ballo?
Egli la staccò vivamente da sè, rigettandola sulla poltroncina con violenza, diede una forte strappata al campanello del camino, e stette aspettando, in piedi, con gli occhi chiusi, pallido, fremente di passione.
Entrò il servo con una grande lampada, che posò sopra una mensola.
— Dite al cocchiere di attaccare la carrozza chiusa; a mademoiselle Jeannette che la signora passa a vestirsi.
Il servo s’inchinò ed uscì. Beatrice si aggiustava la trina del suo colletto spiegazzata; Marcello si sforzava a non guardarla. Ella si alzò, gli rivolse il suo amabile sorriso e se ne andò, senza affrettarsi, senza far rumore, col suo incesso da dea.
Marcello, quando la porta fu chiusa, si slanciò quasi per seguire sua moglie; ma ristette. In fondo era infelice, ecco tutto. Come sempre, la pruova gli era andata miseramente fallita; inutili le vie della confidenza, dell’amore, della passione; inutile il sorriso, la preghiera, la malinconia; inutile il bacio. Il cuore di sua moglie gli restava ignoto. Egli, indossando la nera livrea del gentiluomo, proponeva a sè stesso questo triste quesito: se quel cuore fosse chiuso per tutti, o peggio, per lui solo.