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56 | Cuore infermo |
— Dovremmo andarci; ma per me fo quello che ti piace.
— Worth ti ha mandato l’abito?
— Sì, oggi alle quattro.
— È bello?
— Abbastanza. È di broccato verde-pallido, con roselline bianche ed alighe.
— Ti starà stupendamente... Peccato! Ascolta, Beatrice, vuoi che ti dica una cosa?
— Dimmela pure.
— Quel ballo sarà molto noioso: un ballo come ne abbiamo visti tre o quattrocento in vita nostra, come saremo obbligati a vederne un altro migliaio. Colori oltraggiosi di abiti impossibili, molti brillanti conosciuti e risaputi, molte malinconiche marsine, molte inutili decorazioni. Fuori piove. È uggiosa la sera. I ballerini ti circonderanno, mi ti porteranno via ogni momento, ti faranno stancare nei loro lunghissimi giri di valtzer e io dovrò, per fare qualche cosa, andarmene a giuocare coi miei amici della colonia napoletana. Ritorneremo a casa alle cinque del mattino, stanchi, disfatti, ebbri di noia fino agli occhi. Vedi, qui invece non giunge il triste rumore della pioggia. Tu stai ben calda nelle tue pellicce; pensa, là dovresti andare scollata, con un brivido di freddo per le tue belle spalle nude. Qui siamo noi due, soli, senza noie, senza fastidi. Restiamoci, cara. Restiamo insieme, vicini, qui dove si sta tanto bene. Ti narrerò qualcun’altra delle mie stranezze, per farti sembrare meno lunga l’ora: o se vuoi essermi affettuosa, mi racconterai qualche cosa di te. Oppure... se non ti garba l’ascoltare ed il discorrere, resteremo zitti zitti... senza dire più nulla...
E se la teneva abbracciata, stretta stretta, come il più prezioso dei tesori, con la testa appoggiata alla spalla